E dunque è successo: l’Ungheria (con la Polonia) ha posto il veto sul Bilancio pluriennale dell’Unione (QFP), mettendo così anche a forte rischio anche tutto il piano Next Generation EU.
La minaccia era stata manifestata da tempo. Le regole che legano i fondi europei al rispetto dello stato di diritto sono sempre state osteggiate da Viktor Orban, che non contesta i contenuti del QFP o del Recovery fund, ma contesta in principio queste norme, che ritiene, e con qualche motivo, siano state disegnate proprio contro di lui.
Adesso la strada si fa difficile, quello che Paolo Magri, direttore dell’ISPI, ha recentemente definito “un piccolo embrione di solidarietà” tra i Paesi dell’Unione, che ha dato vita all’eccezionale intervento economico (che va molto oltre il Recovery) a sostegno di economie schiaffeggiate dalla crisi pandemica, rischia di non svilupparsi in una forma di vita stabile e forte.
L’Ungheria (e con lei la Polonia) non ha gran bisogno di questi soldi. Fino ad ora, avendo avuto nella prima ondata un impatto contenuto e nessun confinamento, ha resistito bene alla crisi e riceve comunque un mare di soldi dall’Unione. Però ora è in lockdown e dunque qualcosa nei prossimi mesi potrebbe cambiare per il PIL del Paese. Peer come stanno le cose adesso però Orban può tenere il punto, perché sa che continuerà a ricevere gli aiuti UE anche se il Bilancio non fosse approvato, perché si andrà avanti sulla base del vecchio QFP, molto generoso con il Paese di Orban. Dunque il premier ungherese ha spazio per resistere anche qualche mese, a meno che l’Unione non reagisca con altri strumenti e forme di pressione, che non sembrano essere alle viste. D’altra parte è Bruxelles ad essere in una posizione difficile: se tiene il punto politico dello stato di diritto rischia di bloccare questo grande piano di aiuti e di tagliare le gambe alla ripresa e anche ad un futuro di maggiore solidarietà; cedere sarebbe buono per far ripartire i piani, ma darebbe l’immagine di un’Unione debolissima, sottoposta ai capricci di un qualsiasi capo di governo autoritario.
E l’Ungheria non è il solo problema. C’è anche chi sta lì da una parte a fregarsi le mani di questi inciampi, come fanno i Paesi Bassi e i loro amici “frugali”. L’Aia ha tentato si dall’inizio di mettere i bastoni fra le ruote del Recovery Fund, e certo ora , proteggendosi dietro lo scudo politicamente corretto della primaria protezione dello stato di diritto, può riuscire ad ottenere il risultato di far naufragare il piano di aiuti, o almeno metterlo in avaria fino alle elezioni nazionali del prossimo marzo.
D’altra parte anche in Germania in pochi si stracceranno le vesti per il Recovery. In quanto presidente di turno dell’Unione Angela Merkel ha un interesse per lo meno di immagine a far passare il piano, il varo del quale ha rappresentato una svolta importante nella politica tedesca, ma come cancelliera potrebbe anche farne a meno, tanto che ha annunciato che non prenderà i prestiti agevolati, ma solo un po’ dei miliardi che sono a fondo perduto.
Insomma, questo 2020 iniziato malissimo potrebbe finire ancora peggio, tenendo tutto fermo per qualche mese anche nel 2021, e molte responsabilità sono lì davanti agli occhi di tutti. Sì, i Paesi Bassi non fidandosi, anche sulla base di una serie storica francamente imbarazzante, di come alcuni Paesi, tipo l’Italia, gestiscono i fondi europei e l’economia in generale, si sono comportati in maniera poco solidale, ma alla fine hanno consentito al piano. La questione Orban ha invece dei responsabili evidenti in larga e prevalente parte del gruppo dirigente del Partito popolare europeo (in particolare proprio quello tedesco) che, negli anni, non ha mai avuto il coraggio di intervenire, di isolarlo, di metterlo all’angolo politico, offrendo così all’uomo forte di Budapest una posizione di indubbio vantaggio.