Bruxelles – È in libreria da pochi giorni il saggio “Ikigai in love, l’amore al tempo di se stessi“, che il giornalista Thomas Leoncini ha scritto per Solferino insieme al noto neuroscienziato giapponese, Ken Mogi (i suoi libri hanno venduto milioni di copie in Giappone. E’ l’autore, tradotto in 35 lingue, del Piccolo libro dell’Ikigai, bestseller internazionale pubblicato in Italia da Einaudi).
“Ikigai” è un termine giapponese che significa “una ragione per alzarsi la mattina”, e Leoncini ci ha inviato un estratto del libro in cui Ken Mogi racconta l’impatto della pandemia sul Giappone e in che modo è stata gestita l’emergenza.
KEN MOGI (Ikigai in love)
L’epidemia di coronavirus per i giapponesi è stato uno shock. All’inizio c’è stato un momento di negazione e incredulità. Dopotutto, negli ultimi due decenni abbiamo vissuto diversi falsi allarmi, in cui si profilava all’orizzonte una pericolosa malattia che rischiava di sfociare in pandemia globale. La Sars (2002-2004), l’influenza suina (2009-2010) e la Mers (2012) sono arrivate e se ne sono andate. Queste malattie, anche se certamente pericolose e devastanti in alcune regioni del mondo, non sono riuscite a trasformarsi in una pandemia, con grande sollievo della popolazione, me compreso.
Così, quando sono giunte le prime notizie di un’epidemia di coronavirus proveniente da Wuhan in Cina, non c’era ragione di credere che non sarebbe stato lo stesso anche stavolta. Avremmo dovuto stare attenti, ovvio, a non ammalarci ma molto probabilmente non si sarebbe trasformata in una pandemia. Ora sappiamo tutti quanto queste previsioni fossero sbagliate. Questa particolare epidemia si è rivelata uno di quegli eventi che capitano una volta ogni secolo; la peggiore epidemia dopo l’influenza spagnola del 1918-1921. I danni per la salute e i danni socioeconomici sono stati catastrofici.
Il cervello umano cerca di adattarsi a eventi inaspettati di questo tipo riparando su vecchie abitudini e istinti. In Giappone la gente ha cominciato a prendere precauzioni e moderare i comportamenti anche prima che il governo chiedesse di farlo. È molto tipico della società giapponese in cui il comportamento dei cittadini si autoregola senza bisogno di ordini stringenti dall’alto. È un processo armonioso di organizzazione autogestita, in cui le persone cercano di agire al meglio anche senza che venga loro imposto.
Nel processo di ricerca di stili di vita alternativi nel periodo di autoisolamento e di obbligo di rimanere in casa, i giapponesi hanno fatto ricorso al loro senso di ikigai. Una strada interessante da perseguire, anche se nel contesto di una crisi nazionale e mondiale.
Ci sono stati manager (uomini e donne) che hanno cominciato a impegnarsi a cucinare, sostenendo che fosse la cosa che da sempre desideravano fare. Altri hanno iniziato a disegnare o dipingere, spesso insieme ai figli che si annoiavano a giocare solo col Nintendo Switch. Altri ancora invece hanno organizzato feste su Zoom e a conversare tramite internet grazie a programmi di teleconferenza e a bere sake.
Un tale cambiamento di stile di vita è accaduto in tutti i Paesi del mondo. La gente, dal momento che non è stata più costretta a viaggiare ore per raggiungere l’ufficio, ha cominciato a fare quel che da sempre desiderava fare.
Quel che invece è forse tipico del Giappone è stata la facilità con cui le persone sono passate dal perseguire una vita pubblica al godersi le gioie di una vita più privata. Come se stare a casa e trascorrere tempo per conto proprio fosse quel che desideravano da sempre, da quando erano bambini. La cosa è piuttosto strana, visto che i giapponesi sono noti per essere lavoratori indefessi, che tornano a casa molto tardi la sera.
Forse esistevano già radicate tendenze culturali sommerse che hanno favorito questo cambiamento. In Giappone c’è sempre stata la tradizione di ritirarsi dal contesto pubblico per ricercare il proprio ikigai. Allontanarsi dai continui alti e bassi della politica, dell’economia e delle attività culturali in realtà è sempre stato uno degli ideali da perseguire nella vita.
Esiste anche una parola che definisce questo atteggiamento: inkyo, che letteralmente significa «vita nascosta», in cui una persona vive virtualmente nascosta dal mondo esterno. Sebbene la parola inkyo abbia tradizionalmente una connotazione maschile, nel contesto contemporaneo può essere attribuita anche a una donna. Si può diventare un inkyo, ritirarsi da tutte le attività sociali e indulgere nel proprio ikigai.
È piuttosto interessante constatare che con l’epidemia di coronavirus sia affiorato il lato più
introverso del popolo giapponese, carattere tipico di molte icone culturali nipponiche. Per esempio, la cultura otaku associata a manga e anime è la versione giovanile degli inkyo. Esistono anche forme premature ed estreme di inky. In Giappone si calcola che più di un milione di persone viva in stato di hikikomori (chiusura), cioè che si escludono volontariamente dalla scuola, dal lavoro e da altre attività sociali e rimangono chiusi nella propria stanza, spesso per molti anni. Con l’espressione «80-50» si fa riferimento a uno dei problemi rappresentanti dall’hikikomori: ci sono infatti persone che hanno iniziato l’hikikomori da giovani e che adesso hanno cinquant’anni e genitori ottantenni. Con il sopraggiungere, probabilmente entro pochi anni, della morte dei genitori che si sono presi cura di figli reclusi, chi si occuperà di loro?
Con l’epidemia di coronavirus questo aspetto più introverso della cultura giapponese è venuto alla luce, a volte anche con risultati positivi. Le persone hanno iniziato a cercare il proprio ikigai nel contesto privato, lontano dal bisogno di eccellere nel competitivo mercato del lavoro dominato dalle multinazionali. È stata un’azione riequilibrante, un antidoto al veleno della globalizzazione, quanto meno per il momento.
In Europa è interessante notare che il Rinascimento ha preso il via a Firenze nel XIV secolo, poco dopo la fine di un’epidemia di peste di proporzioni globali che ha visto il suo picco tra il 1347 e il 1351. Probabilmente l’aumento della mortalità costrinse le persone a coltivare più se stesse, i propri interessi culturali e dedicarsi all’introspezione, finalmente, libere dalle norme e dai preconcetti tradizionali. Il ritorno della fede nella vita nel periodo del Rinascimento dopo la Peste Nera è una delle narrazioni più belle e commoventi della storia dell’umanità. Il fatto che ora le persone stiano rivolgendo l’attenzione a un ikigai più intimo, a gioie più private per affrontare la pandemia può indicare l’inizio di una nuova era, non solo in Giappone, ma anche in Italia e altrove.
In tempi difficili come questo, le persone tendono a sbarazzarsi di particolari non necessari e a concentrarsi sulle cose essenziali che si presentano nell’esistenza di ognuno. Forse sta per arrivare un nuovo rinascimento di amore e vita, sollecitato dal progresso nelle tecnologie di intelligenza artificiale e nelle esplorazioni spaziali.
L’amore è il cardine della nostra esistenza e la pandemia di coronavirus ci sta facendo riflettere sull’essenza dell’amore a un livello più profondo.
In fin dei conti ci amiamo perché siamo mortali. Se la vita fosse eterna, il nostro amore gli uni per gli altri non sarebbe così appassionato; un’epoca di difficoltà globale è anche un’opportunità per constatare il potere dell’amore.
La necessità di autoisolarci ci ha reso consci del fatto che, in quanto esseri umani, abbiamo bisogno gli uni degli altri, in carne e spirito.
In questo periodo di difficoltà e cambiamento per il mondo auguriamoci di essere in grado di trovare la nostra strada verso l’essenziale albero della vita su cui cresce il frutto dell’amore. Forse la strada verso quell’albero è lastricata di ikigai.