Bruxelles – L’Italia ha avuto tanto. Dal negoziato senza fine sulla strategia per il rilancio ha ottenuto circa 208,8 miliardi di euro tra sussidi (81,4 miliardi) e prestiti (127,4 miliardi). Solo per il Fondo di risoluzione (RRF) l’Italia ottiene circa 64 miliardi in garanzie. Nessuno come Giuseppe Conte è tornato così vittorioso dalla partita negoziale. Premessa: ottenere così tanto non si può considerare come un qualcosa di positivo, poiché implica che il Paese ha bisogno più di altri viste le maggiori difficoltà. Eppur tuttavia c’è un tesoretto europeo da usare per riparare i danni da coronavirus e ripartire. E qui si pone l’interrogativo d’obbligo: governo e sistema Paese sapranno usare le risorse messe a disposizione?
I precedenti storici inducono, se non proprio allo scetticismo, quanto meno al dubbio. Tanto per avere un’idea, basta guardare gli ultimi dati sull’uso dei fondi strutturali, come aggiornati dalla Commissione europea. Al 30 giugno 2020 il Fondo europeo per lo sviluppo delle regioni (FESR), che per il periodo 2014-2020 destina all’Italia 31,4 miliardi di euro, è stato utilizzato al 35% delle sue dotazioni (10,9 miliardi spesi). E in questo caso va anche di lusso, se si considera che il 98% delle risorse è destinata a progetti e interventi già definiti. Ma se si guarda al Fondo sociale europeo (FSE), al 30 giugno di quest’anno risultava speso il 37% dei 16,8 miliardi di euro da utilizzare nello stesso settennato 2014-2020, con il 77% delle risorse destinate a misure stabilite.
Ancora, al 31 dicembre risultava che appena il 66% del Fondo agricolo europeo per lo sviluppo rurale (FAESR) risultava impegnato in spese ‘decise’ ma non realizzate del tutto. In Italia in sostanza si fa fatica a capire cosa fare con I soldi messi a disposizione dall’Europa. E questo non è certo un bel biglietto da visita, specie nei confronti di chi non voleva concedere garanzie.
Non è un problema di co-finanziamenti. Il co-finanziamento è la regola che vuole che lo Stato membro prima spende la propria quota per la realizzazione del progetti europeo, e poi l’UE mette il resto. L’Italia ha mostrato in passato incapacità di spesa, e non solo per via di regioni con ristrettezze economiche e un patto di stabilità interno da dover rispettare. Incapacità che hanno impedito ai fondi comunitari di arrivare. Il caso dei fondi strutturali è indicativo del problema Paese. Se non si riesce a decidere cosa fare delle risorse, è perché a monte c’è una difficoltà progettuale e strategica.
La strategia nazionale chiesta agli Stati dalla Commissione europea per accedere alle risorse del fondo per la ripresa in tal senso offrono maggiori garanzie. Si vuole una lista precisa, rendicontata, delle cosa da fare. Ciò può aiutare a impegnare tutti i soldi e spenderli, traendo d’impaccio i governi nella loro definizione delle cose da finanziare. Almeno questo ostacolo può essere rimosso grazie all’Europa. Ma restano gli altri ostacoli tipici non solo dell’Italia, comunque molto tricolori: burocrazia e capacità.
Lacci e laccioli amministrativi spesso legano le mani a imprese e soggetti desiderosi di contribuire al rilancio economico nazionale. E poi “il problema sta nella capacità amministrativa”, riconoscono a Bruxelles. Il messaggio è chiaro, ed è stato messo nero su bianco nella VII relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale. “L’Indice europeo della qualità di governo regionale per Italia, Grecia e Spagna, suggerisce che alcune regioni meno favorite di questi paesi potrebbero essere bloccate in una trappola in cui la bassa qualità amministrativa non consente di far decollare la crescita”.
In un documento del 2018, la Commissione europea certificava “un peggioramento dei livelli di capacità e performance della Pubblica Amministrazione italiana in termini di rafforzamento della trasparenza e della responsabilità”. Le ragioni principali di questo deterioramento sono da ricercare nella “complessità della normativa, che è aumentata di pari passo di pari passo con l’incertezza dello Stato di diritto e la confusa ripartizione delle competenze tra i diversi livelli di governo”. C’è poi la questione della corruzione, “una delle principali preoccupazioni per il paese che occupa le posizioni più basse tra i paesi dell’Unione europea”. A Bruxelles sono consapevoli che “soprattutto a livello di governo locale, mancano sistemi di monitoraggio”.
La situazione italiana è in sostanza nota a tutti. Quello che emerge, è che alla fine la Commissione europea è venuta in soccorso dell’Italia. Non è gratificante doverlo ammettere, ma dell’Italia ci si fida poco. Incapacità di spesa, incapacità progettuale, corruzione, cattiva amministrazione. Non sorprende che gli olandesi non volessero concedere all’Italia soldi a fondo perduto per timore che andassero perduti davvero. La Commissione nei fatti si fa garante. La lista delle cose da fare aiuta chi come l’Italia ha problemi a far tesoro delle risorse italiane.
In tal senso il richiamo alle raccomandazioni specifiche per Paese è un altro tassello di questa strategia del sostegno della Commissione. All’Italia si chiede, da diversi anni ormai, la riforma della pubblica amministrazione. Anche qui vale la pena spendere qualche parola in più. Perché ci si ostina a chiedere una riforma di questo tipo all’Italia? Semplice. Sulla base delle informazioni a disposizione “la pubblica amministrazione italiana ha dovuto affrontare continue riforme dall’inizio degli anni novanta in quasi tutti i settori della gestione pubblica. Tuttavia, la performance del settore pubblico, compresa l’efficacia, non sembra influenzata“.
L’Italia fa fatica a fare. Non sa progettare, e non sa innovare. La pubblica amministrazione, che giocherà una ruolo nel piano per la ripresa, ne è il fulgido esempio. L’Italia si presenta all’appuntamento con queste credenziali. La prima grande opera strutturale che serve è la credibilità, di cui il Paese è in forte deficit.