Bruxelles – Barattare i diritti sociali con la sicurezza sanitaria non è un’opzione nell’Europa travolta dalla pandemia Covid-19, soprattutto quando entra in gioco la tecnologia. Nel seminario di mercoledì 23 settembre organizzato dal progetto Connecting Europe della Commissione Europea, è stato tracciato il bilancio dell’impatto del Coronavirus sulle modalità di gestione del diritto alla privacy e della protezione dati da parte dei governi europei.
Applicazioni di tracciamento, uso di droni per monitorare il rispetto della distanza sociale, obbligo alla condivisione dei dati personali e della posizione con le autorità statali: “Possiamo tranquillamente conservare i diritti sociali e implementarli con quelli sanitari, basta bilanciare l’uso della tecnologia”, ha commentato Fabio Chiusi, autore del report Sistemi decisionali automatizzati nella pandemia COVID-19 dell’organizzazione no-profit AlgorithmWatch. “Per esempio, l’uso del termoscanner nei luoghi pubblici non può essere percepito come una minaccia, perché non è in grado di dire niente di più della temperatura corporea di un individuo. Con il vantaggio di tutelare la salute pubblica, individuando chi esce di casa con la febbre”. Molto diverso è invece il discorso sul riconoscimento facciale che alcuni Paesi nel mondo, come la Cina, stanno implementando: “Per fortuna in Europa questi dati sono considerati più sensibili e vengono protetti con più attenzione, perché c’è il rischio che siano usati impropriamente per scopi commerciali, quando invece sono stati raccolti per questioni di sicurezza”.
Il problema della tecnologia è proprio il fatto che la linea rossa tra supporto dei sistemi sanitari e controindicazioni per la tutela dei diritti e della privacy è molto sottile. “Durante il lockdown le soluzioni digitali sono diventate la pietra angolare della vita degli europei, dalla scuola a distanza al telelavoro, fino alle operazioni finanziarie, l’acquisto di generi alimentari e mille altre funzioni delle applicazioni”, ha fatto notare Andreas Aktoudianakis, policy analyst presso l’European Policy Center. “Il Covid ha testato la nostra resilienza e le democrazie hanno raggiunto un livello di dipendenza dalla tecnologia mai visto prima. Chiediamoci solo cosa succederebbe se tutte queste soluzioni sparissero d’improvviso”. Il problema si è posto immediatamente dopo il lockdown: “Con un parziale ritorno alla vita normale, i Paesi hanno dovuto implementare lo stato di emergenza per tutelare la salute pubblica. Ma ora il concetto stesso di supporto tecnologico si sta modificando, perché ci rendiamo conto del rischio di invasione della privacy”.
È qui che entra in gioco l’Unione Europea e la prospettiva che il 20% delle risorse del NextGeneration EU vengano investite nel digitale, come annunciato nel discorso sullo stato dell’Unione dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. “Dobbiamo risolvere questi problemi, aumentando l’autonomia digitale dell’Ue”, ha aggiunto Aktoudianakis. “Per esempio, i Paesi europei non riescono a controllare tutti i dati che i loro cittadini producono: il 92% si trova conservato in cloud negli Stati Uniti, noi non ne abbiamo di comunitari”. Servono quindi “più fondi, più coordinamento tra Paesi membri e una giurisdizione più chiara sulla sicurezza dei dati dei cittadini“, ha concluso l’analyst dell’European Policy Center.
“Usare più tecnologia di quanto necessario non serve, perché può mettere a rischio la privacy e i diritti dei cittadini”, gli ha fatto eco Chiusi. “Questo principio non è qualcosa di negoziabile. Anche in Italia si è provato a usare l’argomento della tutela della salute pubblica per provare a spazzare via il diritto alla privacy. Non sono due concetti in contrasto e bilanciare l’uso delle soluzioni tecnologiche lo dimostra”.