Bruxelles – Un’altra domenica di proteste in Bielorussia, la quinta consecutiva scandita dalla richiesta di dimissioni del presidente Alexander Lukashenko a seguito delle elezioni del 9 agosto 2020. Circa centomila manifestanti hanno sfilato per le strade della capitale Minsk in direzione del palazzo presidenziale, prima di essere bloccati da polizia ed esercito. E mentre i bielorussi cercano sostegno internazionale per guidare la transizione democratica nel Paese, l’Unione Europea si trova in mezzo a due fuochi: la Lituania, che l’accusa di mancanza di polso in politica estera e chi, come la Russia, si scaglia contro la decisione di imporre sanzioni contro i responsabili delle irregolarità elettorali.
Critiche di immobilismo
“A volte reagiamo troppo tardi, le nostre misure sono frammentate e non fanno alcuna impressione sulla società o sulle persone al potere. Quando non manterremo fede ai nostri impegni nazionali, distruggeremo le nostre stesse fondamenta. Il popolo bielorusso non dovrebbe sentirsi abbandonato”. È questo il duro commento del ministro degli Esteri lituano, Linas Linkevičius, in un’intervista al Financial Times.
Al termine del vertice informale di Gymnich, a Berlino (27-28 agosto), i ministri degli Esteri dell’Ue avevano raggiunto un accordo sulle sanzioni da applicare contro soggetti individuabili come responsabili delle repressioni e dell’uso della forza sui manifestanti bielorussi pacifici. Nonostante diversi ministri avessero sollecitato un’azione rapida, i tempi si sono dilatati nel tentativo di “rispettare tutte le procedure legali”, ha spiegato l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell.
“Quello che vediamo in Bielorussia è la continua repressione e intimidazione della popolazione, assistiamo ad arresti arbitrari. Consideriamo inaccettabili le azioni delle autorità in Bielorussia“, ha detto oggi un portavoce dell’esecutivo comunitario.
“L’Unione Europea avrebbe dovuto applicare misure come hanno fatto Lituania, Lettonia ed Estonia. Avremmo preferito sanzioni comunitarie, ma era meglio parlare con una sola voce, perché nessuna voce non è un’opzione“, ha continuato nell’intervista il ministro lituano. Il 1° settembre i tre Paesi baltici hanno imposto un embargo di viaggio a 30 alti funzionari dell’amministrazione Lukashenko, tra cui lo stesso presidente.
Linkevičius ha poi commentato l’avvertimento all’Ue da parte del presidente russo, Vladimir Putin, di non interferire in Bielorussia: “L’Unione Europea dovrebbe inviare il messaggio che piuttosto è inaccettabile che la Russia intervenga negli affari interni della Bielorussia“.
La sfida russa
È proprio la Russia ad aver alzato i toni in risposta alle sanzioni annunciate dall’Ue. Attraverso la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, da Mosca è arrivata la critica di “tentare di influenzare la situazione in Bielorussia”. E ancora: “Invece di mostrare moderazione e tatto, cruciali per creare le condizioni per un dialogo nazionale inclusivo, l’Occidente ha ancora una volta optato per sanzioni unilaterali illegali“.
MFA spox #Zakharova: Regrettably, EU continues its attempts to influence situation in #Belarus. Instead of showing restraint and tact, crucial for creating conditions for inclusive national dialogue, the West once again opted for illegal unilateral sanctions. pic.twitter.com/3sQz2hqFO2
— Russian Embassy, UK (@RussianEmbassy) September 3, 2020
Zakharova ha poi commentato la riunione informale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di venerdì 4 settembre, chiesto dall’Estonia e che ha ospitato l’intervento di Svetlana Tikhanovskaya, candidata alla presidenza dell’opposizione bielorussa: “È stata una flagrante interferenza negli affari interni. Gli sviluppi post-elettorali in Bielorussia non rappresentano una minaccia per la pace e la sicurezza internazionali”.
Le anime dell’opposizione
Intanto in Bielorussia è iniziata la quinta settimana di proteste contro Lukashenko, battezzato l’ultimo dittatore d’Europa: il leader bielorusso governa il Paese 26 anni e ha dichiarato la propria rielezione con l’80% dei voti lo scorso 9 agosto. Durante la manifestazione di domenica 6 settembre, decine di migliaia di manifestanti sono scesi per le strade di Minsk con quella che è diventato il simbolo dell’opposizione: la storica bandiera bianco-rosso-bianca usata prima che la Bielorussia diventasse una Repubblica sovietica.
Inizialmente diretti verso il palazzo dell’Indipendenza, residenza di Lukashenko, i manifestanti sono stati respinti da una massiccia presenza militare, tra truppe dell’esercito, carri armati, cannoni ad acqua e veicoli corazzati. I gruppi dell’opposizione si sono poi dispersi nei quartieri centrali della capitale e secondo il gruppo bielorusso per i diritti umani Viasna almeno 37 manifestanti sono stati arrestati a margine della manifestazione.
Il giorno precedente, sabato 5 settembre, migliaia di donne hanno marciato per la capitale della Bielorussia chiedendo le dimissioni del presidente, mentre gli studenti universitari hanno manifestato contro la detenzione dei compagni, dopo l’ondata di arresti del 1° settembre davanti alla sede dell’Università Statale di Minsk. Per la prima volta dall’inizio delle proteste si sono visti in corteo anche i sostenitori della comunità LGBT con le bandiere arcobaleno, segno che l’opposizione al regime autoritario di Lukashenko sta ampliando le rivendicazioni politiche e sociali.
Con le proteste che si fanno sempre più estese, l’opposizione politica inizia però a faticare nel tenere compatte tutte le anime, anche considerato il fatto che i leader sono quasi tutti in esilio all’estero. In particolare, sembra stia emergendo una prima grossa frattura: per una parte la riforma costituzionale è l’unico orizzonte, mentre per un’altra la priorità sono le dimissioni del presidente. Maria Kolesnikova, una dei vertici dell’entourage di Svetlana Tikhanovskaya, ha annunciato di voler lanciare un nuovo partito, “Insieme”, per spingere sulla questione delle riforme costituzionali. Una dichiarazione che ha suscitato il rimprovero proprio di Tikhanovskaya, per la quale le due rivendicazioni si trovano su due piani differenti e con differenti priorità.
In un’intervista a EUobserver uno dei leader dell’opposizione bielorussa, Valery Tsepkalo, ha invece sollecitato l’Unione Europea e gli Stati Uniti a rivelare dove il presidente Lukashenko nasconda i suoi soldi all’estero, se davvero vogliono aiutare le proteste. Raggiunto al telefono in Polonia, dove si trova in esilio, Tsepkalo ha affermato: “Lukashenko ha i suoi soldi in paradisi fiscali in Europa, ma anche in Qatar e Dubai. Non credo che sia un grande segreto per la comunità finanziaria globale. E apprezzeremmo davvero se i Paesi occidentali li rivelassero al popolo bielorusso, in modo che tutti possano vedere come sta abusando del potere per arricchirsi”.