Bruxelles – Sono passati esattamente 5 anni dalla morte di Alan Kurdi. Era il 2 settembre 2015 quando il corpo del bimbo siriano di 3 anni veniva ritrovato senza vita su una spiaggia della costa turca. Quell’immagine sarebbe diventata presto il simbolo della cosiddetta “crisi dei rifugiati”: più di un milione di migranti che cercavano di entrare in Europa, un terzo dei quali bambini. Da quel momento sembrava imminente l’adozione da parte dei governi europei di nuove misure per la protezione dei migranti.
Il 2 settembre 2020 l’organizzazione indipendente Save the Children pubblica invece un report che punta il dito contro l’Unione Europea: le condizioni dei minori rifugiati sono in molti luoghi, dentro o appena al di fuori della frontiera europea, anche molto peggiori di prima. “I bambini continuano a morire alle porte dell’Unione, mentre i leader europei girano lo sguardo dall’altra parte”, ha commentato la direttrice e rappresentante Ue, Anita Bay Bundegaard. Un’accusa dura ha riguardato “l’incapacità di agire per porre fine alle situazioni più critiche”, che vanno dalla protezione dei minori alle frontiere, all’accesso al diritto di asilo, fino al ricongiungimento familiare.
Protezione mancata alle frontiere
Negli ultimi 5 anni sono stati oltre 210.000 i minori non accompagnati che hanno chiesto asilo in Europa. Come indica il rapporto, più di 700 sono morti durante i viaggi via mare, dalle coste del Nord Africa verso Italia e Spagna, o nell’Egeo, dalla Turchia alla Grecia. L’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia del marzo 2016 ha portato sì a una sensibile riduzione del numero di sbarchi in Europa, ma decine di migliaia di migranti (inclusi migliaia di bambini) rimangono bloccati sulle isole greche in condizioni disumane. Condizioni che, come documentato da Save the Children, spingono i minori ad azioni di autolesionismo, abuso di sostanze stupefacenti e anche suicidio.
Nello stesso momento gli arrivi via mare dalle coste di Libia, Tunisia, Marocco e Algeria sono continuati, con più di 70.000 minori non accompagnati sbarcati in Italia tra il 2014 e il 2018. La forte presa del populismo di destra degli ultimi due anni ha avuto impatto sulle politiche migratorie e ha portato a misure di controllo e sicurezza che hanno colpito in particolare i bambini. Inoltre, gli accordi presi con i governi del Nord Africa rivelano tutta la loro inadeguatezza quando si analizza la debolezza dei loro sistemi di protezione dei minori, le condizioni discriminatorie di accesso al diritto di asilo e l’alto rischio di un ritorno forzato.
La rotta balcanica e la politica dei pushback
In un capitolo a parte viene trattata la rotta balcanica, una delle vie più utilizzate dal 2015 sia dai migranti provenienti dal Medio Oriente, ma in aumento anche tra quelli del Nord Africa. Da quell’anno sono stati più di un milione i migranti e rifugiati passati dai Balcani occidentali (di cui tra i 200.000 e i 300.000 bambini). Il problema più frequente riguarda la mancanza di informazioni fornite dalle autorità sulle procedure per richiedere il diritto di asilo e le tempistiche di risposta. Lo stesso diritto di asilo viene riconosciuto sempre meno frequentemente dai Paesi dei Balcani occidentali: in Croazia è sceso dal 34% del 2016 al 18% del 2019.
Sulla rotta balcanica negli ultimi anni si sta assistendo anche a un maggiore utilizzo della forza per respingere i migranti alla frontiera. Secondo le testimonianze raccolte dalle organizzazioni non governative, nel 2019 più di un terzo dei bambini che viaggiavano nei Balcani hanno conosciuto la politica dei pushback messa in atto ai confini dell’Unione, in particolare alla frontiera tra Croazia, Serbia e Bosnia ed Erzegovina. Metà di loro hanno subito violenze fisiche nel corso del respingimento.
I pushback si registrano però anche su un altro confine dell’Unione, quello spagnolo. Dai 51 totali del 2017, sono aumentati nel 2018 a 125 a Melilla e 533 a Ceuta. Il Comitato per i diritti dell’infanzia delle Nazioni Unite (Crc) ha condannato la pratica come contraria alla protezione speciale dei minori non accompagnati e in generale all’interesse dei bambini migranti.
Problemi all’interno dell’Unione
Un’ultima sezione del report è dedicata invece a quello che succede all’interno delle frontiere dell’Unione Europea. Finlandia, Svezia, Norvegia e Germania hanno introdotto nuove restrizioni che rendono più difficile per i minori ottenere il diritto di asilo o rinnovare i propri permessi. Ma anche quando riescono ad avere accesso ai sistemi di asilo europei, a una piccola parte di loro viene riconosciuto lo status di rifugiato. Alla maggioranza viene concesso un permesso temporaneo, il cui tempo di permanenza è stato ridotto significativamente anche per siriani, eritrei e afghani.
Con il Regolamento di Dublino, anche le procedure per il ricongiungimento familiare sono sempre più complesse per i bambini che cercano di rimanere nell’Unione Europea. Nel 2019 la Germania ha respinto il 70% delle richieste dalla Grecia e in Finlandia solo alla metà dei bambini a cui è garantita la protezione è concesso di ricongiungersi con i propri familiari, in particolare per alcuni costosi ostacoli burocratici come la prova del Dna. Le lunghe attese a cui sono sottoposti spingono la maggior parte dei minori negli hotspot in Italia, Spagna e Grecia a tentare di raggiungere le famiglie illegalmente.
In attesa delle nuove proposte dell’Unione Europea in materia di diritto di asilo, previste per la fine di settembre 2020, la voce di Save the Children si è alzata a denunciare la necessità di un cambiamento radicale, dentro e fuori le frontiere dell’Unione. La risposta ora spetta alla Commissione Europea, che dovrà affrontare tutti gli aspetti più problematici: il meccanismo di ridistribuzione dei richiedenti asilo, le procedure per valutare le richieste alle frontiere e le responsabilità dei singoli Paesi sulla concessione dello status di rifugiati.