Quante volte, negli ultimi dieci anni, ci siamo sentito dire che l’Unione europea “è bloccata da questi Paesi dell’EST?”, o che “questi sono troppo diversi, hanno una storia che non è la nostra”? Tante, eppure la crisi che forse è la più grande nella storia dell’Unione (Brexit a parte) è guidata da uno dei Paesi fondatori, i Paesi Bassi, uno di quei sei che diedero alla luce quella piccola e coraggiosa bambina che diventò quella che è ora l’Unione Europea.
Oltre sessanta anni di storia che sembrano giunti a un termine, che forse non sarà la fine dell’Unione, ma che certo ne rappresentano un momento di svolta importante.
Una crisi che dimostra che l’Unione non può più funzionare sulle regole che ha. Che l’unanimità non è un sistema di gestione efficiente, ma anche che all’interno di questa unanimità ci sia poi chi delle regole fa strame, come l’Italia, e di chi dietro alle regole riesce a tutelare al meglio, anche alle spese dei partner, il proprio esclusivo interesse nazionale.
Ma. Ma va detto che Mark Rutte, il premier olandese, al netto dei suoi problemi interni, della sua battaglia all’inseguimento delle posizioni dei populisti nazionali che non è detto che poi lo pagherà, le regole le rispetta, i conti li tiene in ordine, riesce ad attrarre aziende perché ha un regime fiscale (ad oggi, ma in via di cambiamento) certamente favorevole, ma è anche vero che in pochi giorni un’azienda può nascere, che il sistema della Giustizia funziona, che i trasporti ci sono e sono efficienti, che i contratti di lavoro sono rispettati, e che esiste una sostanziosa indennità per chi il lavoro lo perde. Un Paese dove il debito pubblico è ampiamente sotto controllo, tanto da permettere al governo di affrontare la crisi anche senza aiuti esterni.
Ne fa una battaglia di quantità soldi e di principi l’olandese, insieme ai danesi, i finlandesi, gli austriaci, gli svedesi. E ne fa una battaglia di principio anche l’Italia, anch’essa con solide ragioni dalla sua parte. Anche perché è vero, va detto, gran parte della ricchezza di questi Paesi “piccoli ed efficienti” dipende da quella prodotta in Italia, Francia, Germania.
E qui c’è un’altra evidenza: Parigi e Berlino non guidano più, non riescono ad imporre, con relativa facilità, la loro linea, pur se con le necessarie condizioni. Sarà che Emmanuel Macron perde di credibilità perché ha troppi problemi e insuccessi interni, sarà che Angela Merkel tra un anno non sarà più al sui posto. Sia come sia è stato evidente che il peso di questi due Paesi, che pur tuttora esiste, non è quello che era.
Il problema dunque è ora operarsi rapidamente per trovare un futuro all’Unione, un futuro fatto di obiettivi ma anche di regole. E la prima, che è la più logica, è che l’unanimità va superata e però, il prezzo per farlo, è imporre contemporaneamente regole per imporre il rispetto delle decisioni dell’Unione, nel rispetto dei conti, ma anche in quello dei diritti. Perché se non è accettabile che qualcuno tenga allegramente il debito pubblico al 130 per cento, non è neanche accettabile che nell’Unione ci sia chi non rispetta le regole minime dello stato di diritto. Perché anche chi “va sotto” in un eventuale prossimo voto sappia che certe cose che permettono un corretto funzionamento dell’Unione, economico, di diritto, sono comunque garantite.
La Conferenza sul Futuro dell’Europa, che dopo i ritardi per la pandemia forse nei prossimi mesi finalmente partirà, non dovrà fallire.