Molto usata nella versione inglese “resilience”, significa “capacità di resistenza”, “capacità di recupero rapido”, “elasticità”. In Italiano il termine “resilienza” veniva usato finora soprattutto per designare la qualità fisica di certi materiali di non rompersi in seguito a un urto violento. Viene usato anche in psicologia, per indicare la capacità di un individuo di non lasciarsi abbattere, di reagire e non cadere in depressione dopo un duro colpo della vita. In romanesco c’è il famoso detto “m’arimbarza”, che in fondo esprime lo stesso concetto.
In origine viene dal latino “resiliens”, resiliente, e dal verbo “resilire” (resilio, resilis etc.), che significa letteralmente “rimbalzare”, ma anche “tornare indietro” e quindi “rinunciare”, “desistere”: che curiosamente è l’esatto contrario del significato che si dà oggi a questa parola in inglese, e nelle lingue neolatine (a parte il rumeno, che usa la traduzione di “elasticità”, come in tedesco).
Perché questa curiosità etimologico-linguistica? Perché la parola “resilience” è ormai onnipresente in ogni discorso dei manager e degli economisti, e spesso anche negli articoli, negli studi e nelle analisi di economia e finanza, e nel linguaggio della Commissione europea e dei ministri delle Finanze dell’Eurozona. Il linguaggio del management ha una vera e propria passione per certi termini che a un certo punto diventano di moda, come il prezzemolo in tutte le minestre.
La stessa cosa è successa, fino a non molto tempo fa, con il termine “olistico”, per esempio.
La Commissione europea, quasi inavvertitamente, ha inserito la “resilienza” fra le priorità della sua politica economica, che all’inizio erano solo due: la transizione ambientale e quella digitale. Ora c’è anche la resilienza. E il famoso “Recovery Fund” del Piano di rilancio economico proposto dall’Esecutivo comunitario per rispondere alla crisi del Covid-19 è stato battezzato ufficialmente “Recovery and Resilience Facility”. Per avere i fondi Ue, gli Stati membri dovranno presentare dei piani di spesa che si chiameranno “”Recovery and Resilience Plans”, in cui dovranno indicare quali azioni, investimenti e riforme intendono finanziare per risollevarsi dalla crisi (per “rimbalzare”) e per rendere le proprie economie più “resilienti” oltre che più verdi e più digitalizzate.
Fin qui tutto bene, ci sta. Ma attenzione: abbiamo già visto che cosa è successo al termine “sostenibilità”, usato in origine nel suo senso di sostenibilità ecologica (non produrre danni irreversibili all’ambiente, tutelarlo nella durata), e passato poi anche a designare un concetto finanziario; la sostenibilità delle finanze pubbliche, e soprattutto la sostenibilità del debito pubblico, famigerata motivazione addotta per le peggiori politiche di austerità e tagli dei deficit e degli investimenti pubblici durante la crisi dell’Eurozona.
Oggi che l’austerità, per fortuna, è passata di moda, perfino in Germania, e che la sostenibilità è tornata a indicare soprattutto un approccio dell’economia rispettoso dell’ambiente, il termine “resilienza” potrebbe sostituire, sotto mentite spoglie, proprio quello di sostenibilità finanziaria.
Per adesso, a interpretarlo e a usarlo in questo modo sono soprattutto gli olandesi, nel dibattito in corso proprio sul Piano di rilancio europeo. Per i rigoristi olandesi, non appena ci saranno i primi segni di ripresa dell’economia, l’anno prossimo, bisognerà tornare alla sostenibilità finanziaria, ad applicare le regole “stupide” del Patto di stabilità, proprio nel nome della “resilienza”. E’ solo l’inizio. Stay tuned…