Le manifestazioni di protesta contro l’assassinio di George Floyd dall’America si sono moltiplicate anche in varie città europee, fra cui Bristol, dove i manifestanti hanno sbullonato e gettato in un canale del porto la statua di Edward Colston, un mercante inglese vissuto nel 1700 e dedito a molti commerci, fra cui la tratta degli schiavi. Colston non è uno sconosciuto nel Regno Unito. Fu un benefattore e finanziò scuole, ospedali, chiese e ospizi. Alla sua morte lasciò tutti i suoi averi alla città di Bristol. Ancora oggi molte scuole e strade di Bristol gli sono intitolate e perfino un dolce per bambini porta il suo nome, il Colston Bun. Ma ora la sua veneranda statua giace nella melma e il sindaco di Bristol non esita ad affermare che la sua presenza in città era “un affronto”.
Questo episodio è sintomatico di una società, o forse di un’umanità intera, che non conosce più la propria storia e che nell’incapacità di cambiare il presente, se la prende con un passato fittizio, ideologicamente ricostruito, credendo così di correggere i torti passati e sventare i futuri. Con la stessa logica con cui i manifestanti di Bristol hanno abbattuto la statua di Colston, dovrebbero abbattere quelle di Re Carlo II e Re Giacomo II, entrambi fondatori della Royal African Company di cui Colston era membro e attraverso la quale svolgeva i suoi commerci. Ma dovrebbero anche andare a rivoltare le tombe di tutti i mercanti della città di Londra di quel tempo, che finanziavano i negrieri e ne traevano grandi guadagni.
Bisognerebbe poi procedere a sbullonare tutte le statue di Cristoforo Colombo, anche lui negriero e buttare nel Tevere quella di Marco Aurelio che di schiavi ne ha trascinati a Roma chissà quanti, per non parlare di almeno una decina di Presidenti degli Stati Uniti d’America, fra cui George Washington, tutti possessori di schiavi. E siccome perfino la Casa Bianca fu costruita con il lavoro di schiavi, bisognerà far brillare anche quella. Ma la stessa Bristol, che prosperò con i commerci di Colston dovrebbe oggi pagare un prezzo, magari una tassa per compensare i danni dello schiavismo e allora anche quelli dello sfruttamento minorile nella rivoluzione industriale di cui fu un fulcro e via così, di ingiustizia in ingiustizia, fino a correggere la storia tutta intera. Distruggere i simboli del passato, qualunque essi siano, è sintomo di debolezza e di fragilità, è il male di una società che ha paura, innanzitutto di sé. È la stessa sindrome dei fanatici talebani che distrussero i buddha di Bamiyan e dei tagliagole di Daesh che fecero saltare per aria le rovine di Palmira.
Non è abbattendo la statua di Colston che si cancella lo schiavismo e si corregge il passato. Una società è fatta di queste contraddizioni perché la storia umana è un processo, un divenire. Ancora una volta, la ricetta qui è la consapevolezza, la capacità di capire che uomo era Colston e di situarlo nel suo tempo, un tempo ormai lontano che non possiamo cambiare ma da cui possiamo imparare. E anche la lucidità di vedere invece il nostro tempo e lo schiavismo che si consuma sotto i nostri occhi in tanti Paesi con cui allegramente commerciamo e che chiamiamo nostri “partner” ma perfino nelle nostre campagne dove schiere di diseredati che non hanno nessuna possibilità di andare a manifestare in piazza vengono sfruttati e maltrattati dai negrieri di oggi.
Sono questi che dobbiamo combattere e abbattere prima che diventino monumenti, non vecchi bronzi imparruccati che non fanno più male a nessuno.