Roma – Governare la ripresa del dopo Covid-19 senza tradire il Green new deal. Questa la scommessa rivendicata la scorsa settimana anche dai vertici della Commissione europea. “Se dobbiamo comunque aumentare il debito per sostenere la ripresa, il minimo che possiamo fare è investire in una economia del futuro, moderna e pulita”, ha ricordato la presidente Ursula von der Leyen. Un tema che affrontiamo in questa intervista con Enrico Giovannini, economista, ex ministro e portavoce dell’ASviS, Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile.
Professore, c’è ora il pericolo di tornare indietro, a un periodo pre Greta, e che si possa perdere quella nuova sensibilità per uno sviluppo differente e sostenibile?
“Fin dall’inizio di questa pandemia ho paventato questo rischio, già vissuto nella crisi 2008-2009 quando ero all’OCSE, in cui assistemmo a una politica economica tutta centrata sulla creazione di posti di lavoro. Dieci anni dopo però credo che la sensibilità sia diversa. Il tema dell’allentamento della tensione sui temi legati alla sostenibilità esiste, lo vedremo nelle prossime settimane. Tuttavia, credo che molte imprese si stiano veramente chiedendo dove andare, perché la fragilità delle catene del valore internazionale, il cambiamento di stile dei consumi e anche, direi, la possibilità di fare un salto tecnologico nell’organizzazione del lavoro, danno a tutti l’indicazione di coniugare sicurezza, innovazione e sostenibilità. Solo pochi mesi fa, la finanza già andava in questa direzione e non capisco perché ora dovrebbe cambiare indirizzo dopo una crisi che ha mostrato i limiti sociali e sanitari di un modello basato solo sull’efficienza. Anzi, la lezione che viene da questa crisi è: perché devo investire in una società, in un’impresa, che non punta sulla prevenzione, sulla protezione dei propri lavoratori?”
Le scelte della finanza vincenti più dei modelli di economia reale. Interessante.
“Come successe dieci anni fa. Oggi, rispetto ad allora, anche le preferenze dei risparmiatori e dei consumatori sono più orientate alla sostenibilità. Questo non vuol dire che non perderemo posti di lavoro in maniera massiccia o che non avremo povertà. Ma nel momento in cui, come ha detto anche von der Leyen, abbiamo l’occasione storica di investire soldi presi a debito sulla ricostruzione, sarebbe sciocco replicare i modelli del passato. Sarebbe anche ingiusto, perché questo debito lo dovranno ripagare i giovani, gli stessi che ci stanno chiedendo una politica molto più orientata alla sostenibilità”.
In quest’ottica i provvedimenti approvati da governo vanno in questa direzione o per ora sono solo misure per superare la crisi?
“Come Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile abbiamo adottato un modello di valutazione delle politiche basato sulla vulnerabilità e la resilienza. Classifichiamo le politiche che proteggono, che promuovono, prevengono e che preparano alla trasformazione. Dalle analisi dei primi due decreti (Cura Italia e Liquidità) alla luce di questo modello emerge che la gran parte sono misure di protezione. Aspettiamo il decreto rilancio per una valutazione anche di quest’ultimo. Attenzione però, misure di protezione come i provvedimenti di cassa integrazione o altro tipo di ammortizzatori, potrebbero diventare anche di trasformazione se le imprese investissero in formazione, scelta che servirebbe anche per abbandonare la pratica del lavoro nero. Pensare in termini di sviluppo sostenibile significa guardare alle interazioni e agli effetti delle misure le une sulle altre e se fermiamo a guardare solo l’aspetto finanziario commettiamo un errore. Non dobbiamo disinteressarci di come vengono attuate le politiche di protezione: questo fa la differenza tra assistenzialismo e trasformazione”.
Quindi chi viene sostenuto dal pubblico deve contribuire alla sostenibilità sociale e ambientale. Ma questo è solo un auspicio o per dare gli aiuti bisogna prevedere paletti precisi?
“Ci battiamo da anni per abbassare il limite di dimensione delle imprese che hanno l’obbligo della rendicontazione non finanziaria. Il governo Renzi lo limitò alle grandi imprese e oggi sono solo 200 su 4 milioni quelle obbligate a descrivere come il loro funzionamento impatti sulle dimensioni sociali, ambientali e non solo economiche. Noi sosterremo un emendamento che obblighi tutte le imprese sopra i 250 addetti che riceveranno aiuti dallo Stato a redigere la rendicontazione non finanziaria. Questa non è una penalizzazione ma una spinta verso la competizione, perché ormai sappiamo che le imprese attente alla sostenibilità guadagnano in produttività. Quindi spingere le imprese a fare questo salto culturale aiuta anche la crescita economica. Ecco che anche qui un meccanismo di protezione genera modelli di trasformazione”.
Intanto la mobilità privata con la paura del Covid tornerà ad essere una scelta difficilmente contrastabile. L’industria dell’auto è un pezzo importante nell’economia europea. Come si fa a conciliare tutto questo?
“Sappiamo che l’Italia ha un parco veicoli tra i più vecchi d’Europa. Ma se pure si resta nella mobilità individuale, c’è sempre lo spazio per un passo significativo verso un minore impatto ambientale. Il problema è che le imprese nazionali, e in particolare FCA, sono in ritardo su questo fronte e quindi stimolare la domanda dell’auto elettrica favorirebbe le importazioni e non la produzione nazionale. Ma sappiamo anche che per la diffusione dello smart working, che resterà a lungo nel nostro modo di lavorare, o per paura del virus, le città hanno l’opportunità di ripensare il proprio funzionamento. C’è una norma, poco valorizzata, che abbassa a 100 addetti la necessità per le aziende di dotarsi di un mobility manager. Questo consentirà ai comuni di coinvolgere molte più imprese per organizzare la mobilità, ad esempio distribuendo meglio gli spostamenti durante la settimana per abbassare i livelli di traffico. Inoltre, pensiamo agli incentivi alla mobilità elettrica, alla costruzione di piste ciclabili con la segnaletica e senza cordolo, tutti strumenti che proseguono un percorso già avviato. Questa crisi dimostra che è possibile procedere a cambiamenti, anche radicali, che prima si immaginavano di lungo periodo. Molte città stanno già pensando di andare verso una mobilità più green senza necessariamente avere un approccio totalizzante come Utrecht in Olanda dove sono le auto a essere un’eccezione.”
In questo quadro, l’Italia ha scoperto il lavoro agile con enormi difficoltà a cominciare dalla scuola. Quanto c’è ancora da fare per una vera svolta digitale?
L’Italia ha scoperto l’home working, non lo smart working che è qualcosa di più complesso, perché programmato e organizzato. Certo, per come l’abbiamo fatto, può causare anche dei danni collaterali e quindi c’è da trovare il giusto equilibrio. Questa esperienza collettiva ci spingerà a ridistribuire i nostri tempi in città in modo diverso, le analisi dimostrano che da tutte le attività quotidiane il tempo utilizzato nel traffico è considerato il peggiore e dunque ci sarà una forte resistenza tornare a seguire i modelli precedenti. Con l’home working e con l’home learning ci siamo scontrati con il problema dell’assenza della banda larga e ultra larga per cui se dovessi indicare un intervento da fare istantaneamente sarebbe quello di accelerare al massimo per renderla accessibile in pochi mesi in tutto il Paese. Sarebbe funzionale sia per affrontare una possibile seconda ondata del virus, sia per consentire la trasformazione dei modelli di lavoro, di formazione, di vita e direi anche del turismo che potrebbero essere molto utili nelle aree interne”.
Ci sono segnali poco incoraggianti: per ragioni sanitarie l’immissione nell’ambiente di plastica con i dispositivi monouso e imballaggi ha ripreso a crescere. Le aziende del riciclo stanno soffrendo il ritorno della plastica vergine e la pandemia ha costretto il governo ad annullare la plastic tax.
“È un rischio molto concreto. Mi auguro che il governo italiano prenda provvedimenti rapidi, proprio perché la ripresa delle attività di alberghi, ristoranti e bar non produca un boom della plastica monouso. È altrettanto vero che già prima del Covid si era innescato un cambiamento culturale nei consumatori. E quindi capiremo se era il segno di un vero cambiamento o solo di una moda. Intanto, per alcune attività non si potranno più usare stoviglie lavabili per i rischi e la paura di contagio ma sappiamo però che la produzione e l’uso di prodotti compostabili stava entrando nella mentalità di tutti e quindi anche in questo caso vedremo cosa succederà”.
Si dice che dalle crisi nascono delle opportunità. Mi dica tre cose per titoli che dovremo cercare di innestare per un futuro sostenibile post covid?
“Valutare investimenti, i consumi e i finanziamenti pubblici e domandarsi: vanno nella direzione giusta? Quindi rendere automatico questo pensiero. Dotarsi di programmi in grado di intercettare i fondi europei che andranno in questa direzione, sia pubblici che privati. Terzo, avere voglia di cambiare. Questo richiede forse uno sforzo maggiore perché è forte la tentazione di tornare indietro, alla vita di prima, ma dobbiamo resistere a questo tipo di reazione”.