Bruxelles – “Il Coronavirus può determinare cambiamenti nel lavoro precario”. Lo rileva Eurostat, nel diffondere i dati sul lavoro di breve durata. Nel 2019, il 2,3% dei dipendenti nell’Unione europea di età compresa tra 20 e 64 anni aveva un lavoro precario, il che significa che oltre 2,3 milioni di di persone aveva contratto di lavoro di durata non superiore ai tre mesi (circa 768mila in Italia). Questo dato, rileva l’istituto di statistica europeo, è rimasto relativamente stabile nell’ultimo decennio, passando da un minimo del 2,3% nel 2009 a un massimo del 2,5% nel periodo 2015-2017.
Il quadro però “potrebbe cambiare negli anni a venire”, con l’economia a dodici stelle chiamata a riprendersi dalla crisi generata dal COVID-19 e dalle misure di confinamento introdotte da molti Stati membri dell’UE. “La pandemia ha costretto molte aziende a ridurre le ore dei dipendenti, a interrompere temporaneamente le operazioni o a chiudere definitivamente le proprie attività”. Dunque il dover ripartire richiederà nuova forza lavoro. Non è dato sapere come la ripresa prenderà forma. Una ripresa più lenta potrebbe costringere a forme contrattuali temporanee, e dunque si alimenterebbe il precariato. Una ripartenza più forte, invece, potrebbe incoraggiare forme di lavoro più di lungo respiro. Non è da escludere comunque il ricorso a contratti atipici.
A essere a rischio soprattutto i settori di vendita all’ingrosso e al dettaglio, trasporti, alloggio e di ristorazione. Ciò perché tra il 2014 e il 2019, tra tutte le attività economiche, questi comparti hanno registrato le fluttuazioni più marcate del numero di dipendenti che avevano lavori precari, con un aumento medio del 30% dal secondo al terzo trimestre. Settori ad alta densità di contratti brevi anche agricoltura e pesca (7,5% dei lavoranti totali, nel 2019). A questa lista potrebbero aggiungersi altri settori.