Il dibattito corrente sul futuro dell’Unione Europea merita un’analisi più profonda, sulle caratteristiche ed asimmetrie costitutive del progetto europeo. Il noto intellettuale e filosofo Jürgen Habermas aveva previsto agli inizi del XXI secolo, in tempi non ancora sospetti, a quali problematiche sostanziali rischiava di andare incontro l’Unione Europea all’interno dell’ordine neoliberale: la strutturale inconciliabilità tra giustizia sociale ed efficienza del mercato.
L’emergenza legata al Covid-19 ha messo ancor più in evidenza tale asimmetria. Il tramonto dello Stato sociale, fustigato da anni da medicine in salsa liberista, sta rimettendo in moto antichi conflitti assopiti. Il patto sociale liberale, che coniugava giustizia sociale, attraverso un’attenta ridistribuzione della ricchezza, con le esigenze di accumulazione di capitale è ormai al capolinea.
Il problema legato al declino dello Stato sociale è sempre più evidente davanti all’incapacità dei governi sovrani di incidere sulla propria politica economica. La globalizzazione non ha fatto che esacerbare queste difficoltà. Lo Stato deve rispondere ora ad una nuova struttura sociale che si fonda sulla spietatezza dell’ordine neoliberista. Per riacquisire competitività, i governi sono costretti ad indebolire quelle strutture funzionali a mantenere la stabilità sociale e democratica, come ad esempio i diritti dei lavoratori ed il welfare state (dentro cui ricade la sanità pubblica). Invertire il ciclo sembra difficile, se non impossibile con gli strumenti oggi a disposizione. Per sostenere il patto sociale lo Stato ha bisogno di una serie di politiche redistributive. Questo potrebbe avvenire, ad esempio, attraverso due strumenti: il protezionismo e politiche mirate a sostenere la domanda. Nessuna di queste opzioni però può essere adottata a seguito della firma di trattati europei ed internazionali.
Nel caso specifico, ritroviamo tali asimmetrie dentro la stessa area dell’Unione Europea. I capitali sono liberi di spostarsi dentro il continente a seconda della convenienza. Spesso questa coincide con i livelli di tassazione a cui deve sottostare. Questo mette in competizione gli Stati sempre più bisognosi di investimenti. Più il capitale si de-nazionalizza, cioè più sfugge dalle mani della legislazione nazionale, più lo Stato sociale si indebolisce. Le risorse mancanti ora vengono prese dalle tasche della classe media sempre più impoverita. Il senso di ingiustizia sociale aumenta: per attirare investimenti gli Stati si fanno concorrenza attraverso politiche di deregolamentazione finanziaria andando ad attingere dalle tasche della classe media le mancate entrate dovute al ribasso sulla tassazione sui grandi capitali. Lo Stato sociale è costretto ad aumentare la pressione fiscale su chi non può allontanarsi dal territorio, come imprese locali che lavorano al dettaglio e lavoratori dipendenti. Questi ultimi devono inoltre assistere impotentemente alle politiche di delocalizzazione delle imprese, che impongono ai lavoratori un salario più basso e meno diritti per continuare ad operare in loco. Il lavoratore sente sulle proprie spalle tutto il peso delle disparità del sistema neoliberista che si fonda sul principio di uguaglianza per tutti ma che promuove evidenti diseguaglianze materiali.
Davanti a questa situazione, l’Unione Europea dovrebbe diventare strumento di armonizzazione delle politiche economiche tra gli Stati membri e non di esaltazione della concorrenza tra loro. La promozione di politiche di coesione potrebbe contribuire a salvare l’ordine sociale, disinnescando le destre populiste e sovraniste, che fanno leva sulla frustrazione della piccola e media borghesia, paurosa di perdere il proprio status sociale ed economico.
Diventa quanto mai indispensabile armonizzare le politiche fiscali all’interno dell’Unione Europea per evitare la riproduzione fatale di queste asimmetrie. È necessario evitare la concorrenza al ribasso tra Stati membri sia in termini di sgravi fiscali (come in Olanda, Lussemburgo ed Irlanda) che in termini di costi e diritti del lavoro (molti stati dell’Est Europa). La strada così verso un bilancio europeo comune, anche attraverso l’emissione di titoli di Stato continentali, alias eurobond, andrebbe nella direzione giusta della solidarietà a differenza del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), che invece converge verso il continuum di un approccio asimmetrico e concorrenziale. In sostanza, l’Unione dovrebbe indirizzarsi verso politiche federative capaci di agire compitamente per correggere le ineguaglianze del mercato neoliberista adottando regolamentazioni mirate alla redistribuzione del reddito. Una maggiore federazione Europea vorrebbe dire, ad esempio, una maggiore armonizzazione fiscale che finirebbe per disinnescare la concorrenza al ribasso tra gli Stati, e con essa il senso diffuso di ingiustizia sociale. Solo in questo modo sarà possibile salvare il patto sociale esistente, la democrazia e l’Europa unita.
Giampaolo Conte è ricercatore e docente in Storia Economica presso l’università Roma Tre.