Come molti hanno osservato, il servizio con cui il settimanale tedesco Bild qualche giorno fa ha voluto esprimere solidarietà all’Italia per la strage che il Coronavirus sta provocando, era così fitto di luoghi comuni da suonare alla fine falso e suscitare più fastidio che riconoscenza. Questo accade perché malgrado la pluridecennale frequentazione e le infinite vacanze che i tedeschi hanno trascorso in Italia, ancora non ci conoscono e ci identificano con luoghi comuni duri a morire, non sperimentati personalmente ma acquisiti acriticamente dagli archivi dell’immaginario collettivo teutonico. Pizza, caffè, aperitivo, canzonette e leggerezza, ecco l’Italia dei tedeschi. Ma noi non siamo da meno e sfido qualsiasi italiano a dire come descriverebbe un tedesco senza finire in würstel, birra e patate. E questo vale praticamente per ogni altro popolo europeo. Malgrado più di settant’anni passati insieme, fra Mercato comune, Comunità e poi Unione europea, ci conosciamo ancora soltanto attraverso la lente della vecchia propaganda nazionalista ottocentesca.
Se questo accade è perché nel progetto europeo non è mai stata presa seriamente in considerazione la questione della lingua e dell’appartenenza. Anche qui si è creduto che bastasse il mercato a creare una comunità di intenti. Non era necessario adottare l’esperanto come lingua ufficiale né inventare un nazionalismo europeo con i suoi martiri ed eroi per suscitare un sentimento di appartenenza. Sarebbe bastato creare quel che oggi si chiamerebbe una narrazione comune, insomma un significato per il nostro stare insieme che fosse qualcosa di più che un contratto commerciale. La pandemia ce lo sta dimostrando: non si può provare solidarietà per gente con cui non si può parlare, discutere, anche litigare e mandare a quel paese ma soprattutto conoscere, nel proprio animo, nelle proprie speranze e paure.
Così oggi ci mandiamo telegrammi di affetto e sperticati complimenti reciproci ma ci accorgiamo che siamo l’uno all’altro estranei. Quando l’emergenza sarà finita e l’Unione europea, si spera, guarderà al proprio futuro con un nuovo spirito, perseguendo la necessaria e profonda trasformazione, non ci saranno più scuse. Bisognerà pensare un sistema europeo di insegnamento linguistico coerente ed equivalente che diffonda la conoscenza delle lingue più parlate nell’Unione: tedesco, francese e italiano. Non è più tempo di obiezioni e ripicche: le altre lingue sono meno importanti non perché hanno minor valore culturale ma perché sono meno parlate. Lo diceva Ivo Andric, grande scrittore bosniaco e premio Nobel: “Esistono paesi grandi e piccoli come esistono banconote di grande e di piccolo taglio”.
Un posto speciale nel nuovo multilinguismo europeo spetta all’inglese, il cui insegnamento dovrà essere generalizzato. L’inglese non è più la lingua di uno Stato membro, non esiste più il pericolo di avvantaggiare un paese rispetto agli altri. E comunque, al di là delle battute e degli slogan, le lingue non appartengono a un paese o a un altro, appartengono a chi le parla. Insegnare l’inglese non vorrà dire abbandonare la propria lingua né rinunciare al multilinguismo di certe parti d’Europa. Israele è stato capace di ricostruire l’antico ebraico ed adattarlo alla modernità per dotare di una lingua comune una collettività di persone venute da diversi paesi. Noi dobbiamo essere capaci di altrettanto. L’insegnamento di queste quattro grandi lingue in modo asimmetrico, privilegiando l’una anziché l’altra a seconda dell’area geografica con l’inglese come costante permetterà infine agli europei di capirsi. E dopo quello che ci è costato il Coronavirus, che non mi si venga a parlare di costi, di oneri per gli Stati, di pesantezza di un sistema di insegnamento linguistico europeo.
Un’autentica Unione degli Stati europei costruita su basi solide e con il pieno coinvolgimento dei suoi popoli comporta trasformazioni profonde e scelte coraggiose che toccano lo spirito stesso delle nostre nazioni. È giunto il momento di decidere se si vuole andare davvero in questa direzione o se si preferisce continuare a giocare all’unione doganale.