Siamo all’alba di una potenziale nuova era. Parliamoci chiaro: in Italia, come in Europa, serve un serio piano di investimenti pubblici e di intervento nell’economia accompagnato da un programma politico serio che rimetta lo Stato al centro del futuro economico del Paese.
Diciamocelo però con franchezza, a molti non piace l’intervento dello Stato in economia. Per quale motivo? Non è solamente una questione ideologica, ma un chiaro disegno strategico-economico. Lo Stato interventista, o lo Stato imprenditore come viene appellato in alcuni ambienti finanziari, spaventa. Sì perché lo Stato rappresenta, o ideologicamente dovrebbe rappresentare, gli interessi di tutta la collettività. La difesa dell’interesse comune passa anche dall’economia e dalla stabilità sociale che da essa degenera, oltre ad essere uno dei pilastri costituzionali di questo paese. Lo Stato interventista non deve essere per forza di cose comunista, né tantomeno odorare di stalinismo, le due cose non vanno di pari passo. L’intervento in economia può essere capitalista nella misura in cui lo Stato guida le attività produttive pubbliche verso un chiaro obiettivo strategico nazionale, lasciando completa libertà di azione all’iniziativa privata che rimane la linfa, l’humus del capitalismo basato sui consumi. L’intervento dello Stato significa conferire all’economia un obiettivo comune, esplicitato attraverso le funzioni democratiche del Paese, cioè attraverso il voto dei cittadini verso un programma condiviso e condivisibile di politica economica. Nessuna libertà economica individuale viene schiacciata o soffocata, siamo ancora i lontani figli del padre dell’economia politica Adam Smith, ma solo regolata all’interno di un paniere di regole comuni stabilite dall’intera società, per capirci meglio dalla pletora di elettori che vota per un determinato programma politico. Ma come nasce la necessità di intervento dello Stato in economia? Esistono degli esempi in merito al suo funzionamento?
Affacciandoci sui libri di storia troviamo alcuni esempi interessanti. A seguito della crisi del ’29, che vide il suo epicentro negli Stati Uniti, il mondo capitalista abbandonò progressivamente, non senza difficoltà, la politica del laissez-faire, cioè del non intervento dello Stato in economia a tutti i costi. Il mercato autoregolato infatti stava trascinando a fondo il sistema capitalista mondiale. Ad esempio tra il 1929 ed il 1932 la produzione manifatturiera statunitense si contrasse di quasi il 50%! Altro che crisi del 2008. L’elezione di Franklin Delano Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti nel 1933, spianò la strada ad uno dei più vasti programmi di intervento pubblico nella storia del capitalismo moderno. Come in altri paesi europei, tra cui la Francia di Léon Blum, la Germania di Hitler, passando per l’Italia di Mussolini, si assiste all’adozione di una fase di “pianificazione parziale” dell’economia senza modificare nessun principio fondamentale del sistema economico dominante. L’intervento dello Stato in economia, dove le idee di John Maynard Keynes giocarono un ruolo determinante, ha permesso di salvare il sistema capitalistico dal suo collasso. La crisi, alimentata da una fase funesta di sovrapproduzione di beni e di speculazione finanziaria, rischiava di spazzare via i ceti medi, spina dorsale del sistema capitalista moderno. Dagli USA alla Germania, come ci ricorda nel suo ultimo libro Kran K. Potel, Il New Deal, Una Storia Globale, lo Stato centrale intervenne nel sistema economico non solo attraverso un vasto programma di intervento pubblico mirato a sostenere la domanda aggregata, ma anche attraverso opere specifiche funzionali a sostenere la piccola proprietà immobiliare, nerbo della classe media.
Memori dell’esperienza del ’29, il mondo post 1944 continuò a seguire questo trend. Nelle sue varianti neo-collettiviste o neo-liberiste, il mondo industrializzato sperimentò un programma di economia mista, cioè di intervento dello Stato in economia, anche attraverso la pianificazione, lasciando libero spazio all’iniziativa privata. Pertanto, nessuna restrizione alla libertà economica, l’homo oeconomicus poteva continuare a prosperare nel rispetto di regole ben definite. Dati alla mano, l’epoca dei Trente Glorieuses (1944-1971) fu la più prospera della storia del capitalismo moderno. Il connubio di intervento statale e libera impresa trasformò l’Italia, ad esempio, da una paese ancora principalmente agricolo ad una delle prime nazioni industriali del mondo.
Da dove viene allora l’opposizione all’intervento e alla regolamentazione da parte dello Stato? Prima fra tutti da coloro che nella mancanza di regole comuni traggono il maggior beneficio. Tali élite finanziarie, infatti, si approfittano dell’assenza di una cornice legislativa adeguata per estendere il proprio dominio sul mercato aumentando la propria quota di accumulo di capitale. Tradotto: l’assenza di regole comuni permette al più forte di imporre la propria legge, e di conseguenza il proprio dominio sul mercato traendone il maggior beneficio possibile per se stesso a danno di tutti gli altri. Le regole comuni salvano da tali abusi, soprattutto se imposte da un legislatore forte.
Facciamo un esempio. A seguito della crisi del ’29, gli Stati Uniti vararono il Glass-Steagall Act (1933) con lo scopo di dividere le banche commerciali dalle banche di investimento (in Italia ci sarà la Legge bancaria del 1936). Tale legge era propedeutica ad evitare che i risparmi provenienti dall’economia reale, che si accumulavano nei caveau delle banche commerciali, finissero per alimentare le ambizioni speculative delle banche d’investimento. Tali capitali dovevano finanziarie attività sempre legate all’economia reale, come mutui, investimenti all’impresa etc. In questo caso lo scoppio di una crisi finanziaria avrebbe colpito in maniera assai minore i risparmi, e quindi l’economia reale. A partire dagli anni ’80, le grandi banche di investimento cercarono di svuotare questa legge. Ci riuscirono a cascata in tutti i paesi occidentali a partire dagli anni ’90 spianando la strada alla crisi del 2008 (sotto quest’ottica possiamo vedere la Legge Amato del 1990). In sintesi, con l’inizio dell’epoca della deregolamentazione finanziaria, delle privatizzazioni e del ritiro progressivo dello Stato dall’economia in qualità di pianificatore sono aumentate esponenzialmente le crisi finanziarie. Dati alla mano, nessuna grande disastro colpì il capitalismo occidentale fino agli anni ’70 del secolo scorso, quando iniziò la lunga fase di deregolamentazione che comportò lo scoppio di crisi finanziarie con cadenza quasi decennale.
In riferimento all’Italia di oggi, possiamo trarre alcune lezioni: l’intervento dello Stato nell’economia non è roba da soviet, bensì fa parte della storia più prospera del capitalismo occidentale e dell’Italia moderna; la libertà economica non deve significare libertà di sfruttamento, ne tantomeno libertà di disporre a proprio piacimento delle risorse del Paese; la regolamentazione finanziaria non soffoca il capitalismo, bensì lo salva, mettendo al riparo la classe media, nerbo del sistema economico vigente, dai venti della crisi. Bistrattare il ruolo dello Stato nell’economia significa bistrattare la classe media. Un piano serio di investimenti pubblici, oltre a dare slancio alla ripresa economica (si veda il moltiplicatore economico), metterebbe al riparo dai miasmi del populismo il duo democrazia-capitalismo. Già negli anni ’30 avevano compreso come il sostegno dello Stato all’economia e al suo embrionale welfare pubblico sarebbe stato uno dei principali argini al fascismo.
Richiamare oggi a gran voce un disegno politico che metta al centro lo Stato nell’economia non è un anatema, bensì un’azione funzionale al salvataggio del capitalismo e dell’ordine sociale che conosciamo. Qui non c’è odore di stalinismo, semmai di salvaguardia del nostro stile di vita. Lasciare lo Stato fuori dall’economia, e cioè gli interessi della collettività, significa lasciare maggiore libertà di sfruttamento a chi controlla il mercato. Oggi più che mai un piano serio di interventi pubblici ad esempio per la conversione “verde” dei sistemi produttivi europei, magari attraverso la Banca europea per gli investimenti (BEI) o attraverso lo scorporo degli investimenti dal pareggio di bilancio, vorrebbe dire salvare la classe media, e con essa la democrazia ed il capitalismo stesso (magari sostenibile e sempre più egualitario). Siamo disposti a sacrificare tutto questo per il bene di quei pochi che vogliono ed hanno un accesso privilegiato al mercato? Rispondere a questa domanda diventa la chiave per leggere il nostro futuro.
Giampaolo Conte è ricercatore e docente in Storia Economica presso l’università Roma Tre.