Come molti hanno già osservato, le diverse reazioni alla pandemia nei vari paesi d’Europa e del mondo, stanno mettendo in luce diverse concezioni della vita e diverse scale di valori. Lungo il discrimine fra mentalità protestante e cattolica, emerge un diverso apprezzamento della vecchiaia e del suo ruolo nella società.
Per le nazioni nordiche, efficientiste e rigoriste, i vecchi hanno un interesse solo mercantile. Se consumano, turismo, servizi, farmaci, case di riposo, sono funzionali al sistema. Sennò sono solo un peso e tanto vale sacrificarli. Gli statisti protestanti sembrano anzi vedere nella scomparsa di un gran numero di anziani una molla per la ripresa che verrà. I giovani ereditano, si sbloccano capitali, la gente acquista, l’economia gira.
La mentalità cattolica concepisce invece la vita come sacrosanto e intoccabile dono di Dio, con gli eccessi che conosciamo, dall’aborto al diritto di morire con dignità. Ma in questi giorni drammatici la nostra sensibilità cattolica ci rende pronti a tutto per salvare anche i vecchi. La nostra è sicuramente una concezione anti-modernista, che fa a pugni con i dettami del liberalismo e del consumismo ma profondamente umana.
Ai paesi del rigorismo economico e dei bilanci impeccabili sfugge l’importanza sociale dei vecchi. I vecchi rendono i giovani consapevoli di un passato che non hanno vissuto, hanno un occhio diverso sulla vita, più distante e quindi più lucido, incarnano la debolezza che è anche un monito della fragilità della condizione umana. Forse anche noi con questo cataclisma impareremo a rimettere i vecchi al loro posto, a non volerli a tutti i costi travestiti da giovani, come se la loro condizione di vecchi fosse già una malattia.
In un tempo non lontano i nonni non avevano nessun valore economico, anzi risparmiavano ossessivamente e spendevano il meno possibile, memori dei tempi duri che avevano vissuto. Non affollavano villaggi turistici, palestre, crociere e happy-hour. E un poco ci annoiavano con le loro storie di un mondo che non esisteva più, con i loro ammonimenti di “quando c’era la guerra…”. Erano una presenza costante della nostra vita, un po’ confidenti, un po’ custodi, un po’ alleati contro i nostri genitori, un po’ spie. Aiutavano finché potevano poi dovevano essere aiutati, bisognava dare loro retta, comunque rispettarli, anche quando diventavano rimbambiti.
Uno dei miei nonni mi ripeteva sempre la stessa barzelletta e a mia nonna che lo rimproverava ricordandogli che me l’aveva già raccontata, rispondeva beffardo: “Beh! Se gliel’ho già raccontata, gliela racconto ancora!”. E io non mi sarei mai sognato di interromperlo o di non dargli la soddisfazione della risata finale. Ma in quel tempo passato a riascoltare la barzelletta del nonno imparavo qualcosa, la pazienza, la comprensione, il vuoto della vita e avevo un assaggio di quel che mi aspettava quando sarei stato anche io così vecchio.
L’altro mio nonno viveva al ritmo delle covate delle sue galline. Teneva un calendario appeso in cucina che segnava le date di tutte le nascite attese. E diverse volte al giorno andava a spiare sotto la chioccia se qualche pulcino era saltato fuori di quelli che poi sarebbero diventati polli e a loro volta galline, fra le già troppe del suo pollaio che non riuscivamo a mangiare tutte e che regalavamo o lasciavamo vivere per compassione, finché erano troppo vecchie perfino per il brodo. Un inutile daffare che però riempiva la vita del nonno e anche la nostra, tutta scandita da quelle uova che si schiudevano. Dalla finestra del piccolo ospedale di paese dove andò a morire, mio nonno poteva vedere il nostro pollaio in lontananza. Aspettava ancora una covata. Chiese a mia nonna di appendere un sacco di iuta sulla rete se mai fossero nati i pulcini. Così avrebbe potuto saperlo. Sembra una favola, ma appena nacquero il nonno morì.
A questo sono serviti i miei nonni, se non altro a lasciarmi questi ricordi. Cosa lasceranno invece i nonni olandesi, se mai sopravvivranno, ai loro nipoti? Forse qualche cartolina dai Caraibi. Neanche, mandare cartoline non usa più.