A vedere tutto questo patriottismo da quarantena di cui traboccano i media e le strade d’Italia, fra cori, striscioni alle finestre e videoclip delle frecce tricolori viene da chiedersi quanti degli intrepidi eroi da balcone in tempi normali, sono anche soltanto onesti cittadini.
Quanti sono i patrioti di ogni giorno, che pagano le tasse, non chiedono raccomandazioni, timbrano regolarmente il cartellino, non si danno malati per finta, non minacciano gli insegnanti dei loro figli per un brutto voto o anche solo non parcheggiano in terza fila?
E gli strozzini dell’Amuchina, i ricettatori di carta igienica o gli spacciatori di mascherine: cantano anche loro “all’alba vincerò” dai balconi? Ancora una volta viene da pensare che, come allo stadio, l’italiano è patriota quando non costa niente, quando si passa subito all’incasso della gloria, senza passare dalla battaglia.
A vederci così affezionati alla patria, viene sempre da chiedersi se questa volta ci crediamo davvero o se fra noi si cela sempre quello che brinda al terremoto, quello che da questa disgrazia ci sta guadagnando e invece di lavarsele le mani se le sta fregando.
In questi tempi di isolamento, sto leggendo un romanzo che mi era sconosciuto: “Montenegro” di Bato Tomašević, il memoriale di un montenegrino che racconta la sua vita, dalle guerre balcaniche alla Iugoslavia titista. In una scena l’autore descrive l’arrivo a Cettigne delle truppe di occupazione italo-tedesche nel 1941. “Per la prima volta possiamo vedere in faccia i soldati degli eserciti occupanti. Sono diversi in tutto, dalla motocicletta all’elmetto, dalla divisa alla statura. I tedeschi sembrano usciti dallo stesso stampo: biondi, impettiti. Gli italiani sono abbigliati in modo simile, ma non hanno l’aria marziale, compassata, dei loro alleati germanici. Non incutono terrore. I bersaglieri, con gli elmetti ornati di piume, aggiungono un pizzico di allegra fantasia mediterranea”.
Un quadretto che ci assolve e che mette in evidenza l’eterno carattere italico: l’individualismo, il guicciardinesco “mio particulare” opposto alla disciplina e all’uniformità. Salta all’occhio dello straniero, anche se non ci ha mai visti prima, che noi non siamo tutti usciti dallo stesso stampo come i tedeschi. Se i nostri soldati, invasori come i tedeschi, non incutono terrore è perché in fin dei conti si vede che non credono a quello che stanno facendo. Neanche la divisa in questa scena cancella la nostra individualità, la nostra inestinguibile impermeabilità ad una comunità diversa dalla famiglia o dal clan.
L’istinto tipico di ogni società arretrata, è vero, ma anche una specie di vaccinazione dagli eccessi del branco. I tedeschi sono capaci di perfezione, dalla musica, ai motori, all’Olocausto, con la stessa dedizione. Noi no, ed è questo che ci salva e al tempo stesso sempre ci condanna: noi non crediamo fino in fondo proprio a niente, noi la diserzione ce l’abbiamo nell’anima.
Questo ci protegge sempre dallo strafare, nel bene e nel male. Noi possiamo essere un’eccellenza di individui, mai di nazione.
In ogni vicenda epocale che si abbatte su di noi, arriva sempre il momento del si salvi chi può. È lì che saltano fuori i vigliacchi che prendono irresponsabilmente d’assalto i treni per fuggire dalla Lombardia contagiata e al loro opposto gli eroi, come i medici e gli infermieri degli ospedali lombardi.
Mentre gli altri, la stragrande maggioranza, come Alberto Sordi nel film “Accadde al penitenziario”, sono tutti nascosti in cantina a aspettare di vedere da che parte tirerà il vento. Sfileranno assieme ai veri eroi il giorno che avremo sconfitto l’epidemia.
Ma questo nostro istinto al disobbedire, questa allergia al patriottismo cieco e irrazionale che si mobilita per un mito, dovrebbe renderci capaci di un altro e ben più civico patriottismo, quello dei principi e delle idee, che nasce dal ragionamento e dalla scelta di un modo di vivere. E quello lo si difende con l’eroismo di ogni giorno, che costa così poco e non chiede la vita di nessuno, soltanto il rispetto delle regole, dell’autorità e degli altri.