Come era da immaginare, il Coronavirus sta portando cambiamenti anche nella lingua. Nuove parole si diffondono e altre che sembravano desuete riaffiorano. Una volta il “respiratore” era solo quello dei sub, oggi è prima di tutto quello degli “intubati”, anche questa una parola un tempo poco usata, divenuta purtroppo d’attualità.
L’oscura “Amuchina” si trasforma in una linfa vitale, come l’acqua su Marte e l’aggettivo “positivo”, una volta senza equivoci, oggi prende un’oscura connotazione. Le “mascherine” un tempo erano quelle di carnevale e il “distanziamento” era uno sconosciuto termine che in linguistica significa la capacità di comunicare su cose che non sono immediatamente presenti e in psicologia è l’atteggiamento di indifferenza o quasi che si assume di fronte ai propri sintomi fisici.
Fa riflettere l’espressione “zona protetta” che prima dell’epidemia aveva una connotazione di isola felice, giardino d’infanzia, e ora invece indica la zona racchiusa dal “cordone sanitario”, espressione questa che i nostri giornali hanno largamente usato per la Cina ma quasi mai per l’Italia.
Il “tampone” prima del Coronavirus era quello del burocratico timbro o sennò l’intramontabile Tampax e non si andava più in là. Quanto alla geniale invenzione italica dell’ “autocertifcazione”, se è vero che esisteva già, con l’epidemia ha raggiunto campi di applicazione mai visti. Ormai ci si può autocertificare di tutto, anche l’immunità dal virus, la santità, la capacità di camminare sulle acque o di piegare le posate col pensiero. In caso di frode si paga dopo, a un qualche processo, se mai ci sarà.
Ma il termine che fra tutti fa più riflettere è lo “smart-working”, cioè il lavoro da casa ora celebrato come un toccasana e un argine al contagio. Se lo smart-working, che significa alla lettera lavorare in modo intelligente, furbo, veloce, si oppone al modo di lavorare tradizionale, questo significa che andare in ufficio è da scemi, una perdita di tempo, una sorta di “dumb-working”. Il Coronavirus ci avrà quindi rivelato che in tutti questi decenni siamo stati dei perfetti idioti, che siamo andati in ufficio per niente e avremmo potuto stare a casa. Code nel traffico, rientri a tarda ora, week-end sempre aperti, non servivano a niente. Di tutte le nostre riunioni si poteva fare a meno e se oggi i centri di pronto soccorso sono vuoti vuol dire che gli affollamenti passati erano tutte sindromi da malati immaginari. Carriere come malattie, dunque, tutte immaginarie, che non valevano tutto quello sbattimento e che se avessimo disertato avrebbero lasciato il mondo uguale a quel che era o poco più.
Anche questo il Coronavirus ci ha insegnato: la consapevolezza della nostra futilità, un “tutti a casa” che ricorda il famoso film la cui morale è che restarci sarebbe stato meglio. Ma non lo diceva già Pascal che tutto il male dell’uomo viene dalla sua incapacità di restarsene tranquillo nella sua camera ?