A navigare sui social italiani in questi giorni si notano i segni di quel che l’epidemia sta suscitando nei cuori italici.
Fiammate di orgoglio patriottico contro l’accusa di essere noi gli untori: spunta la prova che sono stati i tedeschi e nasce addirittura l’ipotesi di un complotto teutonico contro l’Italia. Minacce di vendetta contro i francesi e la loro pizza al Coronavirus: noi fummo solidali con Notre-Dame mentre loro, perfidi ci pugnalano alle spalle. E poi appelli alla solidarietà nazionale, resistiamo all’assedio comprando italiano : pecorino e parmigiano ci salveranno dalla depressione economica.
A questo si aggiungono gli entusiasmi per la “felice” decrescita che il virus sta forzatamente portando nel mondo con conseguente crollo dell’inquinamento e pazienza se le fabbriche chiudono e la gente perde il lavoro.
Tutte reazioni che rivelano un pensiero vecchio, inattuale: l’illusione che esista ancora una “casa nostra” in cui rinchiudersi tenendo fuori il mondo, che mangiando italiano si sostenga il Made in Italy quando gran parte del latte che serve per fare i formaggi italiani viene dall’estero come gran parte dei maiali che poi, in forma di prosciutto, porteranno un marchio italiano.
Ci si ostina a ridurre tutta la problematica dell’epidemia ad una dimensione nazionale: noi facciamo più test, gli altri non li fanno, noi abbiamo i medici più bravi del mondo e i ricercatori che con pochi soldi fanno miracoli. Un eterno noi contro gli altri ad ogni pié sospinto.
Nessuno sembra rendersi conto che nulla è più contenibile e riducibile ad una dimensione nazionale, che chiudere le frontiere non è possibile, perché altrimenti si chiudono anche i traffici che tengono viva la nostra economia, che la decrescita scatenerebbe una devastazione sociale con perdite di posti di lavoro e di capacità economica che devasterebbero inevitabilmente anche il nostro tanto decantato servizio medico nazionale fino a spegnere anche lo schermo del computer dove vanno in scena questi deliri.
Nessuno sembra capire che dalla globalizzazione non esiste marcia indietro se non al prezzo di una catastrofe planetaria.
La via da percorrere è invece quella di una nuova responsabilità globale, di una sempre maggiore cooperazione internazionale perché il virus ce lo ha dimostrato che ormai il mondo intero è indissolubilmente legato dallo stesso destino. L’epidemia ha fatto emergere quel che non vedevamo : la fitta e intricata rete di relazioni che copre tutto il pianeta. Persone e non solo merci che si spostano a decine di migliaia da un posto all’altro e che rendono irrilevante ogni frontiera. Visti e passaporti hanno ormai il valore di un adesivo sulla valigia. Registrano spostamenti ma non li regolano né li fermano.
C’è chi ancora crede di poter tenere lontane con una sbarra della dogana questioni di portata mondiale come l’immigrazione e oggi il Coronavirus. Al contrario, saremo sempre più esposti alle conseguenze di tutto quello che accade nel mondo. L’onda suscitata da guerre, catastrofi naturali, crisi economiche arriverà inesorabilmente fino a noi.
Per questo la risposta deve essere una maggiore responsabilità internazionale con accresciuti poteri alle istituzioni internazionali che sole hanno la capacità di influenzare i fenomeni globali. E soprattutto una nuova etica mondialista che si identifichi con dei valori e non con le bandiere stantie di Stati irrilevanti.
La via per un’economia sostenibile è fatta di piccoli passi ma la comunità internazionale deve avere gli strumenti per fare pressione su ogni Stato perché vada in questa direzione. Il virus cinese è il risultato di errori di cui la Cina deve rendere conto cambiando le sue regole in materia di igiene alimentare. Solo le organizzazioni internazionali possono svolgere questo ruolo. È urgente che le classi dirigenti dei nostri paesi se ne rendano conto e i cittadini in questo potrebbero svolgere un ruolo importante con il loro voto. Se non fossero tutti lì a fare il tifo per l’una o per l’altra bandiera come fosse la Champions League.