Bruxelles – “Non possiamo essere il fanalino di coda”, ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte parlando ieri in Senato del vertice europeo di oggi a Bruxelles, ma, in realtà, proprio l’essere in fondo alla lista dei “bravi a crescere” è la posizione che ci aiuterà a strappare qualche soldo in più nel prossimo Bilancio europeo 2021-2027 (QFP). Nonostante il, rinnovato, scontro tra Nord e Sud Europa, che può diventare il veglio scoglio di questo negoziato.
Grazie al fatto che l’Italia è cresciuta meno di tutti gli altri Paesi europei, la porta ad essere insieme ad altri ritardatari come Grecia, Bulgaria, Romania, Cipro e forse anche la Spagna tra quelli che alla fine dei conti, secondo la proposta oggi sul tavolo dei leader UE, riceveranno qualche soldo in più per la coesione (i “fondi europei”). Si potrebbe arrivare a due miliardi in sette anni. Il che alleggerirebbe anche la nostra posizione di contributori netti. Nel vecchi bilancio abbiamo pagato circa 15 miliardi e ne abbiamo ricevuti 11, con un “gap” dunque di circa 4 miliardi che potrebbe ridursi sensibilmente. Perché siamo cresciuti poco.
Potrebbe, abbiamo scritto, perché quello che oggi entra al Consiglio europeo è un documento presentato dal suo presidente Charles Michel, che tenta una mediazione tra i 27, e che subirà inevitabilmente qualche modifica. Nessuno si pronuncia su quante e sul quando, in un vertice complicato che dovrà tirare fuori la proposta di una sorta di “legge finanziaria” europea che vale sette anni, per il quale i leader hanno prenotato gli alberghi fino a sabato.
A parte la povertà di ritorno dell’Italia c’è da dire che ha giocato anche un ruolo la fermezza delle posizioni del governo italiano, di questo e di quello che l’ha preceduto, e le capacità negoziali del team guidato dall’ambasciatore Maurizio Massari, che tra l’altro è riuscito a rosicchiare qualcosa anche sul quel famoso “Indice di prosperità relativa” che serve a riequilibrare le posizioni per Paesi come l’Italia che hanno una grande differenza di ricchezza nelle sue regioni, per noi tra Nord e Sud.
Conto l’ha ammesso: “Siamo in emergenza, e dobbiamo tutti lavorare, ciascuno chiaramente per le responsabilità che si assume in base al ruolo che ha. Dobbiamo ragionare come fossimo in emergenza, quando ragioniamo di emergenza riusciamo a coordinarci al meglio”, ha detto all’Ansa in Parlamento ieri. “Non possiamo essere fanalino di coda”, ha rivendicato.
Dunque il bilancio europeo del dopo Brexit, senza più i soldi britannici, dovrebbe darci qualcosa in più per le politiche di Coesione e contenere più di altri Paesi i tagli alla Politica Agricola, sulla quale pure si ridurrà, comunque, la differenza tra quanto diamo e quanto riceviamo indietro. Per le Migrazioni arriveranno molti soldi, la proposta raddoppia i fondi da 10 a quasi 22 miliardi. Anche qui bene per noi.
Ma Conte non è soddisfatto, “l’Italia – dice – è perfettamente consapevole di essere parte della casa comune europea ma non siamo disposti ad accettare in nome di una rapida conclusione del negoziato un bilancio insufficiente per le esigenze dei nostri cittadini. Sarebbe una sconfitta non tanto contabile, ma politica”. Il premier si riferisce al fatto che “rispetto all’ambizione rilevata nel programma della commissione europea” guidata da Ursula von der Leyen, nella proposta Michel sul quadro finanziario pluriennale “resta poca traccia”. In particolare il governo di Roma avrebbe voluto vedere più “strumenti innovativi” per il bilancio, cioè l’aumento delle “risorse proprie”, quei fondi raccolti direttamente dalla Commissione e riversati nel Bilancio comune, e per gli italiani la proposta di Michel “resta inadeguata”. Ma è più una posizione politica di lungo respiro questa, centrata su una riforma futura, che una posizione negoziale per un tavolo sul quale dobbiamo saper stare difendendo quello che il lavoro politico di Conte e negoziale di Massari hanno ottenuto.
Se l’Italia può rivendicare di aver giocato fin qui bene la sua partita negoziale, il vero nodo da sciogliere rimane quello della grande contrapposizione tra il Nord e il Sud d’Europa. Austria, Germania, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia (Paesi ricchi che si definiscono, chissà perché “frugali”) godono di quelli che vengono definiti ‘rebate’, rimborsi per il contributo al bilancio comune (per un totale che sfiora i 15 miliardi). Si tratta di veri e propri privilegi, alimentati da risorse degli altri governi. L’Italia, con altri 19 Paesi, ha deciso di dire ‘basta’ al pagamento degli extra che finiscono oltretutto ai Paesi più ricchi, tutti nordici, oltretutto gli stessi che frenano per un bilancio settennale più sostanzioso.
Il ricco Nord, però, attento al rigore e al proprio profitto, lega la questione dei rimborsi al destino negoziale di questo budget europeo. Se si eliminano i ‘rebate’, come peraltro chiesto anche dalla Commissione europea, allora nessuno sforzo finanziario aggiuntivo. Il presidente del Consiglio europeo Michel ha dovuto cedere ai capricci dei cinque del Nord: l’abolizione dei rimborsi avverrà, nella sua proposta, in maniera progressiva, e comunque resteranno per l’intero settennato, fino al 2027. Se mantenere provvisoriamente il rebate significa superare resistenze e magari spingere il gruppetto dei cinque a mettere di più, allora che rimborso sia.
Ecco i conti, nelle grandi cifre. La Commissione chiedeva impegni nazionali pari all’1,11% del Reddito nazionale lordo, per 1.134 miliardi di euro per il periodo 2021-2027. Austria, Germania, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia sono decisi a non oltrepassare la soglia dell’1%, e allora ecco la proposta Michel: contributi pari all’1,074% del Rnl, per 1.094 miliardi di euro. Se i rebate vengono mantenuti, si può chiedere ai cinque del nord di mettere di più, guadagnare qualche decina di miliardi di euro. Comunque poco rispetto a quello che vuole il Parlamento (1.324 miliardi di euro), che minaccia di far saltare l’intero tavolo.
Ha collaborato Emanuele Bonini.
Articolo uscito originariamente su l’Altra voce dell’Italia di oggi.