Roma – “Senza politica estera comune l’Europa non può che essere assente”. Il generale Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore della Difesa e consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali, interviene con questa intervista concessa a Eunews sui due focolai di crisi scoperchiati in Iraq e in Libia proprio all’inizio del nuovo anno. Su Trump e l’uccisione del generale Soleimani, conferma il giudizio: È stato un atto di guerra”.
Partiamo dalla crisi più vicina, la Libia. Europa quasi impotente alla finestra, i veri mediatori sono Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan?
“Sì, non c’è dubbio che sia così. L’Europa si sta dimostrando ancora una volta di non avere una politica estera comune quando si tratta di affrontare crisi internazionali di questa portata. La cosa ancora più grave è che anche gli strumenti istituzionali di cui dispone, non stanno funzionando a cominciare dall’Alto rappresentante e dal Servizio di azione esterna, o anche la politica di sicurezza e di difesa. Forse non sono gli strumenti giusti”.
Strumenti inadeguati e forse anche volontà. Sembra che fuori dai confini sia poco attiva
“È poco attiva per il motivo che ho detto, aggiungendo che non viene presa in considerazione dagli Stati membri. Danno poco peso e non fanno nessuno sforzo per perseguire una linea comune privilegiando quasi esclusivamente gli interessi nazionali. Quando ci si riesce, come nel caso dell’accordo sul nucleare con l’Iran, ora messo a rischio dal ritiro USA, qualche risultato arriva”.
Con un esercito europeo potrebbe avere un ruolo più incisivo?
“L’Esercito, le forze armate sono uno strumento della politica estera. Funzionano se ho una politica estera comune, altrimenti è un dispendio di energie e di risorse inutile. L’esempio viene dal recente passato. Con Francia, Spagna e Portogallo fu creato l’Eurofor, un dispositivo a livello divisionale che fu impiegato per la prima volta in Kosovo con risultati eccellenti. Quando Pristina, proclamò l’indipendenza, la Spagna a sentir parlare di secessione si chiamò fuori proprio per una mancanza di unità nella linea di politica estera”.
L’Italia sul fronte diplomatico ha molte difficoltà.
“L’Italia da parecchio tempo è estranea a qualsiasi dibattito internazionale, non solo oggi manche con il governo precedente. Un’assenza dai tavoli che abbiamo pagato e pagheremo in futuro perché non siamo noi da soli quelli che possono farsi promotori di iniziative diplomatiche concrete. In questi giorni ci stiamo muovendo con grande dilettantismo. Quello che si fa è più per rispondere a esigenze di comunicazione che per raggiungere risultati concreti”.
C’è stato pure il pasticcio della defezione di Fayez al Serraj a Palazzo Chigi…
“Queste cose si fanno nelle segrete stanze, lontano dai riflettori e poi si rende pubblico quello che può diventare un successo. Altrimenti non si fa altro che irritare uno dei protagonisti e infatti è esattamente quello che è successo. Iniziative come queste sono sempre rischiose e devono essere preparate molto bene”.
Ieri la richiesta di un cessate il fuoco da parte di Russia e Turchia. Tripoli ha già dato il suo accordo. Crede che anche Haftar possa accettare?
“In questi casi vale sempre il principio it takes two to tango. Non riesce se uno dei due non vuole ballare, in questo caso Haftar che sta conseguendo vantaggi tattici e insisterà per consolidarli”.
L’altro focolaio è l’Iraq. Sulla decisione di Trump di eliminare il generale Soleimani, lei ha detto a caldo che si è trattato di un atto di guerra. Conferma questa sua convinzione?
“Non so come altro potremo definirla. Se nell’ambito di una disputa internazionale si elimina uno dei protagonisti ufficiali e riconosciuti come tali, se non è un atto di guerra è un omicidio”.
Eppure quello che il Pentagono ha definito un atto di deterrenza sembrano dare ragione agli USA.
“Vedremo cosa accadrà anche nelle prossime settimane. Serve comunque ricordare che dal 2007 al Pentagono hanno cambiato strategia. Prima davanti a una crisi si mandavano 150 mila uomini per vincere una guerra ma quasi mai i risultati conseguiti era all’altezza dello sforzo. Da Robert Gates (ex segretario della Difesa con Bush Jr e Obama ndr) in poi, lui stesso consigliò di cambiare dottrina con attacchi mirati e condotti da forze speciali. Un messaggio molto potente: se c’è una disputa, anziché spianare la strada raggiungo i nemici singoli responsabili e li elimino in qualsiasi modo e luogo.
La reazione dell’Iran ha sfiorato la base dove ci sono i militari Italiani. Quanto rischiamo a restare in Iraq?
“L’allarme è stato dato prima dell’attacco e dunque ‘telefonato’. Ciò detto quando si fanno delle operazioni militari il rischio è endemico, c’è e fa parte del mestiere di soldato e i militari sono preparati ad affrontare questo. Le preoccupazioni vanno considerate in questo contesto. Se invece che a Baghdad l’Iran decidesse di agire contro Israele attraverso il Libano e gli Hezbollah, nella linea blu ci sono 13 mila uomini di cui un migliaio italiani che corrono dei rischi analoghi”.
Quindi dobbiamo restare in Iraq?
“Facciamo parte di una comunità di paesi che condividono le stesse idealità a livello internazionale. Ricordo il preambolo del Trattato del nord Atlantico (forse più importante del più famoso articolo 5), che individua i valori comuni della salvaguardia della libertà dei popoli, della propria civiltà, fondati sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sul predominio del diritto. A volte questi valori vengono usati ipocritamente ma sono dei principi che ci devono guidare. Estraniarci ci condannerebbe all’isolamento totale”.