Roma – La mina dell’ex Ilva innescata con l’annuncio del gruppo ArcelorMittal di riconsegnare le chiavi ai commissari e rinunciare all’operazione di salvataggio dell’acciaio italiano, rischia di esplodere sotto Palazzo Chigi.
L’incontro di ieri durato oltre tre ore tra il governo guidato da Giuseppe Conte e i vertici aziendali è finito con le peggiori previsioni, praticamente azzerando le possibilità di un recupero. I rappresentanti indiani della proprietà, Lakshmi e Adyta Mittal sono stati inflessibili durante il vertice ad alta tensione a cui hanno partecipato i ministri Stefano Patuanelli, Roberto Gualtieri, Giuseppe Provenzano, Nunzia Catalfo, Roberto Speranza e Teresa Bellanova.
L’uscita di scena è stata comunicata ufficialmente ai Commissari straordinari (proprietari degli impianti) e ai sindacati, facendo scattare l’allarme e mettendo l’esecutivo subito in tensione con accuse reciproche tra alleati.
Dopo il disastro della gestione della famiglia Riva, l’ex Ilva, ora affidata al gruppo Indo-europeo, per l’Italia è diventata una partita cruciale, non solo perché riguarda oltre 10 mila lavoratori diretti e altrettanti nell’indotto. Dalla produzione della più grande acciaieria d’Europa, dipendono in grandissima parte la cantieristica e meccanica italiane, punti di forza del nostro export.
Le richieste di Mittal sono però diventate insostenibili per il governo perché ora non basta più il cosiddetto scudo ambientale. Una protezione saltata nel decreto salva-imprese con un emendamento presentato da una fronda del Movimento 5 Stelle e votato dalla maggioranza, ma precedentemente anche dalla coalizione con la Lega. Le questioni ambientali, le bonifiche necessarie e la messa in marcia degli impianti a norma di legge, sono il punto più delicato degli stabilimenti tarantini, restituiti allo Stato due giorni fa con un comunicato esplicito. “Con effetto dal 3 novembre 2019 il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso”.
Una parte del governo sarebbe disponibile a ripensare lo scudo ma Mittal ha messo sul piatto altre richieste impossibili da soddisfare: oltre 5 mila esuberi e più tempo per poter rispettare il piano ambientale.
“E’ emerso dalla discussione che lo scudo penale, non era la vera causa del disimpegno dell’azienda – ha detto il premier . questa ritiene che con i livelli di produzioni non siano sostenibili gli investimenti e di non poter assicurare gli attuali livelli di occupazione con un esubero di 5mila lavoratori. Per noi è inaccettabile”. Rispettare gli impegni ribadisce il governo, pur disponibile a valutare elementi di accompagnamento alla situazione di mercato contingente, alle guerre commerciali in corso, alla previsione dei dazi ma nessuna richiesta è stata accettata.
Di fatto non c’è alcuna trattativa e che Mittal volesse lasciare senza dare spazi di manovra si poteva capire. Ieri, insieme alle comunicazioni ufficiali ha bloccato i lavori della fabbrica, i pagamenti dei fornitori, interrotto le vendite e l’esecuzione degli ordini.
Per il governo, già alle prese con le fibrillazioni della manovra, si apre ora un nuovo fronte e nessuna delle soluzioni si presenta facile, con una fronda consistente del M5S che fin dall’inizio ha messo i bastoni tra le ruote, schierandosi per la chiusura dell’acciaieria e reimpiegando tutti i lavoratori nelle bonifiche. Le alternative sono un ingresso diretto dello Stato con il coinvolgimento della Cassa depositi e Prestiti o la ricerca di un nuovo acquirente. In ogni caso, la fase avrebbe bisogno di essere gestita da un governo forte e politicamente coeso, che la coalizione giallorossa difficilmente in questo momento può garantire.