Che Europa ci troviamo dopo cinque anni di Commissione Juncker, di un Parlamento europeo a guida PPE-PSE, di non meno di una cinquantina di governi che si sono succeduti nelle 28 cancellerie? Un’Europa più piccola, più fragile. Certo, visto i colpi che ha ricevuto, è forse già un grande successo che sia ancora in piedi, ma facendo i conti il Consiglio europeo che si chiuderà oggi sa più di un requiem che di un allegro arrivederci al presidente Jean-Claude Juncker e un ottimistico benvenuto alla nuova presidente Ursula von der Leyen.
Il Consiglio ha dato l’addio (per la seconda e forse non ultima volta) alla Gran Bretagna. Questa non è interamente una colpa europea, il lavoro lo ha fatto quel fenomeno di David Cameron quando oramai quasi quattro anni fa chiamò uno sciagurato referendum per separare il suo Paese dall’Unione. La Commissione europea, i leader europei, decisero di “non interferire, e il risultato dimostrò che fu un errore, un errore grave. Il referendum, dal punto di vista dell’UE, fu perso, e certo se si fosse deciso di partecipare a quella campagna, anche discretamente, senza far apparire “ingerenze”, peggio di così non poteva andare. Ma forse, visto il sottile margine ottenuto dai vincitori, un intervento di verità rispetto alle bugie di Nigel Farage e di Boris Johnson, avrebbe potuto aiutare. La piccola Europa scelse di starne fuori e perse un pezzo importante. La “tristezza” ora sbandierata dai leader in vista della separazione sa molto di lacrime di coccodrillo, di scaricabarile anche. Certo non è il grido di dolore di Leonida, l’ultimo dei “300”, pronto a battersi fino a morire trafitto da decine di frecce per difendere la sua patria.
Unione europea a 27 dunque, non più a 28, come cinque anni fa. Un po’ più piccola.
Questa è solo la sconfitta più evidente, ma forse neanche la più grave. Cosa dire dell’incapacità di mantenere le promesse fatte ad Albania e Macedonia del Nord, due importanti Paesi dei Balcani che hanno fatto letteralmente “i salti mortali” per aderire alle richieste di riforma avanzate da Bruxelles in cambio dell’apertura di un processo di adesione all’Unione? La Francia “dice no e senza l’unanimità l’allargamento non si può fare”, si difendono gli altri governi, alcuni dei quali, come quello italiano, sono invece pronti ad avviare i negoziati di adesione per due Paesi che, a detta di tanti osservatori, hanno fatto tali e tante riforme del sistema giudiziario, per la lotta alla corruzione, da essere più avanti di alcuni Paesi membri. Sarà Parigi che vuole un’Europa più piccola per poter pesare di più nel consesso, ma il risultato è che un Paese, un solo Paese, sta tenendo tutti gli altri sotto scacco, e l’Unione si fa più piccola, perché non sa crescere.
Ma non finisce qui, la crisi nel Nord della Siria, con l’invasione turca del territorio dove sono (dove erano) tanti di quei curdi che aiutarono l’occidente a sconfiggere l’Isis, si è svolta nella totale non influenza dell’Unione europea. Una crisi alle nostre porte che ci ha completamente ignorati, sulla quel non siamo riusciti ad esercitare un minino di influenza, che ha visto un autoritario leader regionale discutere da pari a pari con i presidenti di Stati Uniti e Russia, scavalcando completamente i 28 (o 27).
Più piccola anche nei bilanci. Dal Consiglio di oggi emergerà che gli Stati membri non hanno alcun entusiasmo di mettere in comune qualche soldo in più, per fare politiche insieme, per dare una mano a chi è in ritardo, per dare più respiro e strumenti all’azione comune, per pesare di più nella cosiddetta “scena internazionale”. L’uscita della Gran Bretagna si risolverà non in un orgoglioso rilancio, ma in un pavido arroccamento.
Un’Europa più piccola dunque non solo per la lunghezza dei suoi confini, ma anche dentro e oltre i suoi confini.