Bruxelles – Provano a scherzare, ma il clima non è di quelli di festa. C’è poco da stare allegri, e infatti il loro viso è rabbuiato, corrucciato, perché il vertice dei capi di Stato e di governo dell’UE si chiude come peggio non si potrebbe. E’ anche l’ultimo summit per Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, i cui mandati scadono prima dell’appuntamento di dicembre. I presidenti di Commissione UE e Consiglio europeo salutano nel giorno in cui l’Europa non dà prova di credibilità, e si mostra inconsistente come mai prima di questa occasione.
Allargamento, bilancio, crisi turco-siriana: ecco l’ABC dell’inefficacia comune. Nessun accordo sul quadro pluriennale, il bilancio che per sette anni, a partire dal 2021, dovrà finanziare il funzionamento dell’Unione. Il cessate il fuoco che è una dichiarazione di resa dei curdi, lasciati a loro stessi. Promesse non mantenute sull’allargamento, un accordo sulla Brexit che vuol dire perdita di un partner. C’è un mix di amarezza, delusione e rabbia mescolati alla mestizia dovuta ai saluti. Saluti che sia Juncker sia Tusk rivolgono ai presenti, ringraziando tutti i cronisti di tutti i Paesi che in questi anni hanno riconosciuto attenzione al dibattito sull’Europa.
Prova a stemperare la tensione Tusk, quando dice di “non ritenere una buona idea fare dei bilanci sull’eredità” dei mandati dei due leader UE. “Il suo sarebbe troppo lungo, il mio troppo corto”, dice riferendosi al numero di consigli Europei ai quali lui e Juncker hanno partecipato nella loro carriera. Il lussemburghese frequenta l’Europa dagli anni Novanta, il polacco da molto meno. La strappa la risata della sala stampa, ma è un fenomeno isolato di una conferenza stampa dove prevale il senso di insoddisfazione che sfocia nella reprimenda agli Stati.
“Albania e Macedonia del Nord non sono da rimproverare. Hanno fatto tutto quello che era stato chiesto loro. Erano pronti per iniziare i negoziati, purtroppo non lo erano pochi Stati membri”, sibila Tusk, convinto che la decisione di non avviare i negoziati per l’adesione di Tirana e Skopje “non è un fallimento, ma un errore”. Si scusa, dicendosi “imbarazzato per quanto accaduto”, e si dice certo che quanto accaduto “è una crisi di breve periodo, non certo la fine della storia”, ma intanto tutto è rimandato a maggio 2020. Prima di questa data di allargamento non si riparlerà. “Chiedo ad Albania e Macedonia del Nord di non perdere le speranze. Il meccanismo decisionale dell’UE è complesso. A volte richiede l’unanimità, è questo il problema”. Critiche ad un impianto che forse andrebbe rivisto. Questo lascia intendere Tusk.
Juncker la prende alla lontana prima di affondare il colpo. “All’inizio del mio mandato avevo detto che non ci sarebbe stato allargamento in questi cinque anni, e così è stato. Ma qui non si trattava di far entrare nessuno, qui si trattava di iniziare a discutere di far entrare qualcuno”. Non certo una sfumatura. Quindi il messaggio ai governi. “Perché l’Europa sia credibile occorre che tenga fede alle proprie promesse”. E a Tirana e Skopje era stato promesso che l’avvio dei negoziati sarebbe avvenuto.
Juncker e Tusk lasciano, consapevoli di salutare in modo completamente diverso dalle lore aspettative. Hanno le mani vuote, in occasione del loro ultimo vertice. Sempre ammesso che sia davvero l’ultimo vertice. Perché c’è il fresco accordo sulla Brexit che rischia di essere respinto dal Parlamento di Londra. E allora potrebbe servire un vertice straordinario. Vada come vada, “il Regno Unito diverrà un Paese terzo, e mi dispiace per questa prospettiva”, la considerazione di Juncker prima dell’uscita di scena, povera di applausi e troppo carica di delusioni. Perché la verità è questa: la Commissione dell’ultima chance ha deluso aspettative e impegni, trascinando Tusk negli insuccessi di cui il vertice dei leader di ottobre non è che solo l’ultimo tassello.