Bruxelles – I numeri sono ottimi, 138 miliardi di esportazioni europee “in un contesto mondiale di rallentamento” bastano a descrivere il settore dell’Agrifood europeo come “trainante e protagonista mondiale”, ma l’Unione europea è sempre pronta a celebrare i successi e però anche a dimenticarne il valore e i bisogni. L’agricoltura non è più, solo, sudore e fatica: oramai è alta tecnologia, si coltiva con i satelliti, si vende in quantità perché c’è un’altissima qualità, ma da Bruxelles non arrivano segnali positivi per il futuro, pronti come sono a far pagare a questo settore il prezzo di accordi internazionali e di investimenti per altre produzioni.
Luigi Scordamaglia è uno dei “guru” dell’Agrifood europeo, per anni presidente di Federalimentare ed ora coordinatore di Filiera Italia, l’organizzazione che riunisce Coldiretti, Conad e oltre 50 brand del Made in Italy agroalimentare, e promuove lo sviluppo di tutta la catena, dai campi ai supermercati, ai negozi di delicatezze europee (ed in gran parte italiane) sparsi per il Mondo intero. Ci parla della situazione in questa intervista, concessa durante una breve permanenza in Italia, tra un viaggio in Congo e uno in Russia per promuovere il prodotto europeo.
“Gli ultimi dati sul settore, diffusi dalla Commissione europea, sono molto positivi, ma al di là delle celebrazioni del commissario all’Agricoltura Phil Hogan in realtà ci si dimentica quasi sempre dell’importanza strategica del comparto”.
Eunews – Non vi è andata giù la gestione dell’accordo commerciale Mercosur…
Scordamaglia – “Purtroppo quella è la migliore dimostrazione che se si deve sacrificare qualcosa sull’altare di un accordo internazionale quella è l’agroalimentare, di solito a favore dell’automotive. Ma è un approccio sbagliato, e lo dimostra la forte ostilità a questo accordo, anche nel parlamento europeo. Non si può celebrare l’agroalimentare per mettersi una medaglia e poi essere pronti a svenderlo quando serve. E poi diciamolo: sul dumping sociale, ambientale, sulla sicurezza, non si può negoziare. Noi rappresentiamo 7,5 milioni di occupati, diamo lavoro a 44 milioni di famiglie ed abbiamo bisogno di attenzione ed investimenti, non possiamo fare con l’automotive, che può spostare società e produzioni dove gli è fiscalmente più conveniente”.
Eunews – Vi servirebbe piuttosto una mano vera invece che complimenti?
Scordamaglia – “Non ce la facciamo da soli. L’anello debole filiera, la parte agricola, può continuare a fare sacrifici grazie a un forte radicamento, ma considerando poco il lavoro stringi stringi alla fine si chiude. Veda ad esempio le stalle: la zootecnia è calata anche per scelte poco lungimiranti, se una stalla chiude non riapre più, e chiude con lei tutto un indotto, perché un allevamento ha un effetto moltiplicatore altissimo: macchine, fertilizzanti, logistica… non ce la si può cavare da soli, anche perché da un lato ci si vanta e si dice che i nostri standard qualità, sicurezza, tutela dell’ambiente, diritti dei lavoratori sono i più alti al mondo, ma poi metti in discussione la Politica Agricola Comune dicendo che è un sistema antico. Ma non è così: a parte effetti indiretti ma fondamentali come il combattere i disastri idrogeologici, evitare lo spopolamento delle campagne, garantisci qualità e sicurezza alimentare, oltre che lavoro e ricchezza”.
E. – Invece, secondo lei, quanto è ‘moderno’ il settore, quanto c’è dentro di innovazione e cosa per sostenerlo?
S. – “Serve innovazione nella spesa. Le fasi non sono slegate, stare in filiera è propedeutico per accedere alla PAC, come fare innovazione è fondamentale per accedere a finanziamenti per gli investimenti. Prendiamo ad esempio il ‘precision farming’: abbiamo fatto un accordo con Leonardo per l’utilizzo satelliti ai fini agricoli, perché più la tecnologia è spinta più hai resa, riducendo le risorse impiegate. Con le nuove tecnologie ogni dieci metri quadrati di terra li gestisci al meglio, riducendo l’uso di fertilizzanti e della sempre più preziosa acqua. Questo devi finanziare anche con la PAC, è il modello globale di agricoltura sostenibile ma anche un modello dietetico sano. Invece ora c’è una polarizzazione nel dibattito tra chi punta a consegnare a poche aziende che poi sono farmaceutiche la produzione o chi, come l’Europa dimostra, che sostiene che 44 milioni di famiglie producono meglio delle ‘multinazionali della sintesi’”.
E. – Insomma chiedete aiuti economici…
S. – “Non è puro assistenzialismo, ma è fare competitività. L’industria alimentare non deve rincorrere il momento del mercato ma deve puntare a commitment di lungo periodo, e qui serve la partecipazione di tutti, ad ogni livello, anche istituzionale. Molte cose sono andate male in questi anni, come lo ‘Sviluppo rurale’ (far restare ed anzi attratte lavoratori nelle campagne, ndr) perché anchhei qui c’è stata una polarizzazione nelle scelte: o aiuti diretti (set aside, pagare per non produrre) o sviluppo rurale, poi politiche per cui la tutela ambientale sembrava alternativa alla produzione. Questo non può funzionare ed infatti non ha funzionato. Sviluppo rurale e grande produzione di qualità devono avanzare in parallelo. Dobbiamo avere una filiera che sia efficiente in ogni snodo, dai parchi naturali, alla ricerca, alla distribuzione. Non siamo una macchina che consuma risorse comunitarie, siamo invece sistema moderno e sul quale si deve investire in soldi e in politiche. La competitività, la sostenibilità, rappresentano il futuro su 360 gradi. E’ necessario passare ad avere un’immagine innovativa e non arcaica di questo settore”.
E. – Il tema del giorno, oltre alle domande su quali saranno le politiche della nuova Commissione europea è la Brexit. Sono solo bollicine in meno che venderemo a Londra?
S. – “Quanto si parla di Brexit sento, giustamente, parlare dei ‘diritti dei cittadini’ come prima priorità, ebbene, con la separazione, soprattutto se sarà senza accordo, l’effetto peggiore in termini nutrizionali è per cittadini britannici. E’ stato calcolato un aumento del 20 per cento dei prezzi dei generi alimentari di base, in un Paese che dipende per il 50 dall’importazione di prodotti agroalimentari. Questo aumento dei prezzi porta a uno scadimento qualitativo importante che farà peggiorare l’indice obesità in un Paese che ha già il record europeo. Sarà per loro una scelta masochistica, in particolare se sceglieranno il no deal. I retailer inglesi famosi per vendere prodotti qualità inferiore, usando struimenti come il ‘Semaforo alimentare’ che penalizza le produzioni naturali a vantaggio di quelle chimiche, e non aspettano altro. Il problema riguarda salumi, formaggi, di tutta la gamma. I prodotti italiani, essendo di qualità, avranno una caduta più grave di altri”.
E. – Se invece si arrivasse a un’uscita ordinata, con un accordo?
S. – Noi ce l’auguriamo. Anche perché ci sono politiche, come la clorazione dei polli, che noi non abbiamo mai visto con simpatia, della quale erano loro i paladini. Appena si libereranno, come dicono alcuni, dal “morso europeo” adotteranno norme che andranno a peggiorare gli standard igienicosanitari dei prodotti. Se li mangiano loro sono scelte loro, ma se c’è un interscambio rischiamo standard più bassi anche per noi, ed è preoccupante”.