La crisi politica italiana ha nuovamente riacceso, davanti alla formazione del governo M5S-PD, le polemiche sull’interferenza dell’Europa nelle vicende italiane. Principale accusato di questa indebita attività è lo spread.
Non commentiamo la fumettistica visione dello spread come fosse un agente provocatore, dotato di proprie intelligenza e autonomia decisionale: l’antropomorfizzazione di cose e oggetti ben si correla, purtroppo, all’età mentale delle platee dei social.
L’assunto fondamentale è che, attraverso la leva – o lo spauracchio – dello spread l’UE interviene a imbrigliare le scelte politiche italiane: il ricatto dei mercati, percorso con lo strumento dei maggiori oneri finanziari che si fanno gravare sull’Italia, imporrebbe di percorrere – o di evitare – alcune soluzioni e, con esse, l’attività e la rappresentatività di alcuni partiti.
Già in questo assunto si compie una prima inversione: lo spread è una conseguenza delle scelte (politiche, economiche, sociali) di una nazione, non il contrario; esso si muove una volta conosciute quelle scelte, non prima. In qualche caso forse prima della loro formalizzazione, quando i futuri scenari si delineano con ragionevole certezza. È la tipica “anticipazione” che i mercati fanno di scelti o eventi il cui verificarsi è dato per certo o estremamente probabile.
Ma il vero problema sta altrove. Lo spread è solo uno dei tanti parametri espressi da un mercato finanziario che è anch’esso espressione di un modello economico che si rifà al sistema dei capitali, della libera impresa, della proprietà etc. e che, con relativamente minime variazioni, procede dalla Rivoluzione industriale ai giorni nostri.
Non discuto qui se questo modello, tipicamente occidentale, sia giusto o sbagliato ovvero quanto debba essere trasformato e o rinnovato; di fatto questa è la società occidentale, questi le sue regole e i suoi principi. Lo spread è solo una delle espressioni di una “legge del mercato” che regola tutti i rapporti – e non solo quelli economici – anche nel nostro quotidiano; in ultima e assai semplificata analisi, il rapporto domanda/offerta provoca la contrazione dei salari, la diminuzione dei posti di lavoro, il rincaro della benzina, l’imposizione del ticket sanitario, le code al pronto soccorso, la riduzione dei fondi per la scuola, l’innalzamento dell’età pensionabile, le buche nelle strade, il tasso dei BTP, etc. Nel farlo, garantisce anche le tutele tipiche di questo modello: libertà di impresa, remunerazione del capitale (sia finanziaria sia produttiva), difesa della proprietà privata, differenziazioni salariali tra i diversi mestieri, libertà di commercio e così via. Ritorniamo con la memoria al modello antagonista per eccellenza, quello sovietico, con le file nei negozi di scarpe, stipendi, case, vestiti pressoché uguali per tutti, pianificazione statale dell’economia, divieto di impresa e della proprietà private, assenza di libertà d’insegnamento e di espressione culturale o ideologica. In quel modello il mercato non esisteva, non c’era bisogno di misurare il valore economico delle cose, delle imprese, dei mestieri: lo faceva lo stato.
Qualche cerebroleso ha chiesto al presidente della BCE di “eliminare il meccanismo dello spread”. Costoro non capiscono che la determinazione di un valore, all’interno di un sistema che tutto valuta e soppesa per definizione, è un fatto automatico e l’eventuale eliminazione dello spread (se mai fosse fisicamente possibile, visto che non è un animale o un’associazione) sarebbe solo l’eliminazione di un nome perché la differenza tra i tassi dei titoli di stato italiani e tedeschi a dieci anni anche un bambino elle elementari potrebbe continuare a calcolarla. A meno di non fare come negli ultimi anni della guerra che si vietò di ascoltare le radio straniere e tutti, appena a casa, si sintonizzavano su Radio Londra e, nelle nostre città, era tutto un rimbombare sordo dei famosi colpi beethoveniani.
Quando in un paese come l’Italia si profila l’uscita dal governo di una realtà sovranista e antieuropea (ovvero contraria – ma lo hanno capito i salviniani? – a questo INTERO modello di società occidentale) e l’ingresso di una forza che è espressamente europeista e quindi inserita in tale modello (nel quale ciascuno può poi avere le proprie distinzioni ma all’interno delle regole del gioco e di cui l’UE è una espressione) è quindi logico che lo spread ne indichi il maggior valore attribuitogli dal mercato e, se non lo facesse lo spread, sarebbe comunque evidente di per sé. Per eliminare lo spread, si deve eliminare il mercato e con esso, tutto il sistema economico occidentale così com’è oggi, sostituendolo con un altro.
Bene: sono consci i “leoni da tastiera” che gridano contro lo spread, che il loro grido sarebbe la prima breccia in questo sistema occidentale dell’economia e del mercato? Che, nel moderno capitalismo basato sul mercato globale, tutto ha un valore economico e lo spread altro non è che uno dei parametri che misura la credibilità finanziaria dei nostri titoli di stato e, quindi dell’emittente, ovvero l’Italia? E che rifiutare questa valutazione, anzi demonizzarla, con tutte le conseguenze che essa implica, significa, in buona sostanza, mettere in discussione il sistema e aprirsi a altre e nuove regole e nuovi modelli (quali)? Sarebbe interessante fare un sondaggio tra gli elettori della Lega o della Le Pen, per capire quanti sarebbero felici di mettere in discussione la libera impresa o la proprietà privata. A meno che, sempre nell’ambito di una infantile antropomorfizzazione, non credano che, cacciato lo spread cattivo dal bosco della politica, gli uccellini torneranno a cinguettare, il sole a splendere e tutti vivremo felici e contenti.
Favole.