Di Alessandro Bosco
In attesa del voto all’Europarlamento, le indicazioni sulle nomine ai vertici dell’Unione sembrano parlar chiaro: il governo italiano, che nel 2014 alla presidenza della BCE che già aveva dal 2011 aggiunse l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, è fuori dai giochi. “Oltre al danno la beffa”: il Parlamento ha scelto David Sassoli come suo presidente, pescando tra i banchi dell’opposizione PD.
Sassoli succede a Antonio Tajani che, proclamato il successore, si affrettava a rivendicare l’autonomia decisionale del Parlamento, il cui presidente sarebbe stato scelto tenendo conto solo dei nuovi equilibri democratici.
Nei prossimi giorni l’Eurocamera sarà ancora protagonista quando dovrà confermare (o bocciare) la candidata presidente della Commissione scelta del Consiglio europeo. Il voto del Parlamento non è peraltro scontato. Se nel Consiglio le dinamiche intergovernative prevalgono su ogni ideale di sorta, il Parlamento eletto direttamente dai cittadini è lo spazio politico di interazione e conflitto tra i partiti e i gruppi.
L’elezione di Sassoli (345 voti al secondo turno) lascia però poco spazio alla fantasia. Benché non sia prerogativa del Consiglio, la scelta del nuovo presidente del Parlamento sembra il risultato scontato di un’investitura dall’alto. Anche in questo caso le logiche intergovernative pare abbiano prevalso.
Storicamente, a chi sostiene l’insostenibilità democratica di un così fatto processo politico (sia in termini di nomine sia di legislazione) si fa notare che quei governi godono delle legittimità popolare ottenuta nelle diverse elezioni nazionali. Una spiegazione probabilmente, con l’acuirsi della crisi di consenso dell’UE, sempre più fragile.
Fatta questa premessa, è ancora più interessante dare un’occhiata ai dati sulla tenuta elettorale dei governi. Anche se evidentemente forzato, si tratta di un valido esercizio simbolico.
In una recente elaborazione l’Istituto Cattaneo ha raccolto i risultati della tornata di fine maggio e delle ultime elezioni politiche nazionali delle diverse compagini (partiti o coalizioni) di governo. La maggior parte di esse arrivava al test europeo dopo almeno sei mesi di mandato.
Al di là delle assunzioni teoriche da approfondire, è significativo notare come tra i 9 governi rafforzati dal voto (Spagna +10,1%; Polonia +7,8%; Lussemburgo +6,3%; Slovenia +3,2%; Ungheria +3 %; Irlanda +3 %; Lettonia +2,4%; Danimarca +2,2%; Italia +,3%) non ci siano né Francia né Germania né Belgio (-14,2%, -8.8% e -5,1%). È a questi tre paesi che andrebbero le tre cariche più ambite dell’Unione. Le elezioni di “mid-term” li assestano lontani dal 50% differentemente, ad esempio, dal governo italiano, da quello ungherese e dal pur rafforzatosi governo polacco. Seppur avanzato poderosamente – dovrebbe garantirsi il capo della diplomazia europea – il PSOE spagnolo guida un governo (monocolore) di minoranza con il 32,8% dei consensi e ancora distante da un accordo di coalizione.
Anche questi dati avvalorerebbero una tesi ormai famosa: almeno in questa primissima partita (non ancora chiusa), gli Stati e il loro peso specifico nell’Unione continuano a valere di più di qualsiasi discorso di legittimazione popolare e di qualsiasi spinta democratica dal basso.
Una qualche tipo di opposizione del Parlamento al momento dell’approvazione del pacchetto del Consiglio potrebbe invece essere un primo (importante) segnale.