Sempre meno europei, sempre più in mano a multinazionali senza un territorio di riferimento. Le nostre bevande, i cibi tipici, per non dire i motori delle auto o le strutture di costruzione europei nel giro di 10-15, tutti prodotti di eccellenza, celebrati nel Mondo intero anni potrebbero esserlo un po’ meno. Perché sta sparendo l’alluminio europeo, vittima di politiche, nazionali e dell’Unione, che stanno favorendo la grande impresa internazionale a scapito delle produzioni locali, vicine a coloro che poi questo prezioso materiale usano, e sempre più ri-usano, in un progetto di economia circolare che per questo metallo funziona ottimamente.
Politiche di settore che nel giro di 20 anni hanno già fatto chiudere decine e decine di aziende di trasformazione, che ora lanciano un grido di allarme: se continua così ci resta poco da sopravvivere, e l’Europa finirà in mano a produttori cinesi e indiani che, tra l’altro, hanno un’industria altamente impattante per l’ambiente.
La storia è semplice, è una storia di concorrenza distorta, nella quale l’Unione potrebbe intervenire ma non lo fa, e la parola chiave è “dazi”, che ci imponiamo da soli… La denuncia, forte, viene dalla Federazione europea dei consumatori di alluminio (FACE) che raggruppa le imprese, tutte PMI, che lavorano questo metallo, per farlo diventare lattina da bibita, motore di automobili, parte di costruzioni e mille altre cose. Ne abbiamo parlato con Roger-Philippe Bertozzi, responsabile degli Affari europei della Federazione.
Eunews – Ci spiega cosa rappresenta il settore della trasformazione dell’alluminio in Europa?
Bertozzi – Rappresenta, tanto per cominciare, oltre 900mila lavoratori, dei quali 230mila diretti e 700mila indiretti. Ed è un settore con un mercato in aumento verticale, basta pensare che in un’auto in dieci anni si è passati dall’utilizzarne 50 chili a 150, per non parlare delle auto tedesche che, costruendoci i motori, arrivano anche ad oltre 300. Questo materiale è particolarmente indicato perché è stato dimostrato che aumenta la stabilità dei mezzi ed ha anche un’ottima capacità di assorbimento degli choc. Poi ci sono i contenitori per le bibite e gli alimenti, le costruzioni… La domanda cresce, di circa il 3 per cento annuo, anche perché è un metallo eco-friendly, facile da riciclare e che noi in Europa compriamo solo da produttori che hanno una bassa carbon footprint.
Quanto se ne usa, da dove arriva?
In totale ne usiamo 12 milioni di tonnellate l’anno. La produzione primaria UE è scarsa, circa 2 milioni di tonnellate, in calo del 30 per cento negli ultimi otto anni e continuerà a calare perché abbiamo solo impianti piccoli, vecchi (consideri che il più recente ha 40 anni) e alle multinazionali che le possiedono non conviene più, anche per l’alto costo dell’energia. Ma questo non è un bene, se l’Unione davvero pensa ad un “rinascimento industriale” non deve perdere questa industria e deve anzi ripensare in profondità le politiche di aiuto pubblico, perché con quelle attuali è impossibile andare avanti.
Poi abbiamo un forte aspetto di economia circolare, perché ogni anni produciamo in Europa oltre 3 milioni di tonnellate di alluminio “secondario”, possiamo dire “riciclato”. A dire il vero molto di questo viene esportato perché attualmente, dopo il recupero, non conviene lavorarlo (si parla qui degli scarti di lavorazione, ndr). Però l’Unione dovrebbe intervenire in questo, perché non riutilizzando questi scarti ed esportandoli poi li re-importaimo come prodotti finiti, che invece potremmo lavorare tutti all’interno.
La grandissima parte di quelle 12 tonnellate è dunque è importata da varie zone del Mondo e qui sta il problema.
Ma se non lo produciamo dobbiamo per forza importarlo…
Certo, ma a che prezzo? L’Europa, la sua industria, non possono fare a meno dell’alluminio, è impensabile, ma noi non ne produciamo abbastanza, neanche lontanamente, e dunque cosa facciamo? Anziché favorire l’ingresso di una materia prima indispensabile ci mettiamo sopra dei dazi. E’ una completa pazzia! Per essere chiaro: non è che mettiamo un dazio su un prodotto estero che fa concorrenza ai nostri, ma su un prodotto che noi non abbiamo e di cui abbiamo estrema necessità! I dazi arrivano al 6 per cento sul grezzo e al 7,50 sui prodotti. Su questi ultimi non abbiamo niente da dire, ma sui primi sì, ci stanno uccidendo, per due ordini di motivi, entrambi gravi: il primo è che i margini di utile nel settore sono molto bassi, e dunque anche una minima percentuale di costo in più è estremamente gravosa, il secondo è che, come dimostra un ponderoso studio che abbiamo commissionato all’Università LUISS di Roma, il prezzo della materia prima che proviene da paesi con i quali l’UE ha accordi commerciali che hanno azzerato i dazi, è lo stesso di quello con i dazi, perché a quello si adeguano i venditori e noi non abbiamo una via d’uscita!
C’è poi, a dirla tutta, anche un problema di innovazione, di ricerca, di come affrontare le rivoluzioni che renderà possibili il 5G, ed anche su questo non abbiamo sostegni.
Quanto dipendiamo noi europei dalle forniture estere?
Oggi sul grezzo la nostra dipendenza è del 73 per cento, venti anni fa era del 30 per cento. In sostanza per il 2019 avremo bisogno di importare circa 6,5 milioni di tonnellate, con dazi che non avevano senso già venti anni fa, e che ora sono diventati ancora più assurdi e dannosi.
Scendiamo nel dettaglio: di quanti soldi stiamo parlando?
In venti anni sono stati circa 18 miliardi in totale, negli ultimi anni spendiamo circa un miliardo l’anno in dazi, che potrebbe essere speso in ricerca, aumenti di produzione, occupazione… Sopratutto quando dobbiamo fronteggiare una concorrenza internazionale agguerrita, con una Cina che vive di aiuti di stato sleali, e noi mettiamo un costo in più sulla materia prima che la Commissione europea, nonostante alcuni marginali aggiustamenti, si ostina a mantenere.
Perché, che interessi ritiene di tutelare la Commissione?
Quelli dei grandi produttori con grandi capacità di influenza, come Alcoa ad esempio, che di fatto si mettono in tasca questo 6 per cento in più. Funziona così: cinque o sei gruppi multinazionali controllano tutta la produzione del materiale primario in Europa, ma sono anche proprietari delle aziende che trasformano il minerale in alluminio primario in Paesi terzi duty free, con i quali cioè l’Unione ha accordi di libero scambio che hanno azzerato i dazi, e che però esportano in Europa, come spiegavo, allo stesso prezzo dei prodotti con i dazi. Per non parlare di “triangolazioni” che portano in Europa anche allumino dalla Russia. Dunque così le multinazionali di fatto si intascano un “loro” dazio del 6 per cento. E chiedono all’Unione di mantenere questo balzello perché altrimenti loro “non ce la fanno”. Di fatto godono di una sovvenzione nascosta da parte dell’Unione europea.
Dunque, cosa chiedete ora a Bruxelles?
Abbiamo lanciato una grande campagna per l’eliminazione totale dei dazi sull’alluminio grezzo, stiamo facendo un grande sforzo, che però è indispensabile per la nostra industria. La Commissione e gli Stati conoscono bene la realtà: non stanno offrendo una protezione ad un settore industriale, ma una rendita alle multinazionali, mentre le PMI, letteralmente, sono obbligare a pagare dazio e l’esistenza stessa del comparto è a rischio. Per non dire della contraddizione che l’Europa ha dal punto di vista ambientale: ferma noi, che compriamo il primario da industrie che valutiamo anche per l’impatto sul CO2 e che non superano i 4 chili a tonnellata, e concede spazio a Cina e India che producono, rispettivamente, a 17,5 e 25 chili di CO2 a tonnellata…