Di Silvia Compagnucci per Icom, Istituto per la competitività.
La digital transformation in atto sta rivoluzionando la nostra vita: innova i processi produttivi delle imprese e offre nuovi canali comunicativi, nuove modalità di interazione socio-economica e nuovi strumenti di azione per individui, imprese e pubbliche amministrazioni. Tra tutte le nuove tecnologie che si stanno affermando, l’intelligenza artificiale (qui l’articolo di Maria Rosaria Della Porta) rappresenta uno dei fenomeni più affascinanti e dal maggior potenziale di crescita e di impatto su praticamente ogni settore economico e ogni canale relazionale. Ma ancora oggi molte sono le domande sul suo sviluppo: quali saranno le professioni che scompariranno? Quanti posti di lavoro perderemo? In un periodo così complesso dal punto di vista economico la sola possibilità che possa aumentare la disoccupazione genera immediatamente il panico. Ma si tratta di una paura davvero motivata?
Esistono recenti studi che mostrano i potenziali effetti benefici dell’intelligenza artificiale sull’occupazione. Tra questi, una ricerca condotta da Accenture evidenzia come i ricavi delle imprese potrebbero crescere del 38% entro il 2022, a patto di investire sull’intelligenza artificiale e su un’efficace cooperazione uomo-macchina almeno quanto le aziende leader di mercato. A queste condizioni, anche il livello di occupazione potrebbe beneficiare di un aumento del 10%, con i benefici più significativi nei settori tlc, sanitario, dei servizi professionali e del commercio.
Dai risultati della survey condotta emerge che secondo il 61% dei manager, nei prossimi tre anni crescerà il numero delle figure professionali che utilizzeranno quotidianamente l’intelligenza artificiale. Un ottimismo che è condiviso anche dagli oltre 14.000 lavoratori intervistati che, in grande maggioranza (62%), si aspettano un impatto positivo dei meccanismi di automazione sul proprio lavoro. Naturalmente, è imprescindibile che l’organizzazione del lavoro venga profondamente ripensata: si deve partire dai compiti, anziché dai ruoli, e assegnare mansioni di volta in volta a macchine e persone. Solo in questo modo si potrà bilanciare la necessità di automatizzare il lavoro con quella di valorizzare le capacità. Il 46% dei dirigenti d’azienda è convinto che sia obsoleto pensare in termini di mansioni prestabilite per ciascuna professionalità, mentre un altro 29% dichiara di aver già ampiamente ridisegnato i ruoli in un’ottica di maggior flessibilità.
Anche lo studio “Turning AI into concrete value: the successful implementers’ toolkit” condotto da Capgemini riporta i risultati di una survey che ha coinvolto oltre 1.000 manager provenienti da nove Paesi (Australia, Francia, Germania, India, Italia, Olanda, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti). L’indagine ha evidenziato che, grazie all’implementazione dei sistemi di intelligenza artificiale, quattro imprese su cinque (circa l’83%) hanno creato nuovi posti di lavoro soprattutto a livello senior (il 67% delle nuove assunzioni riguarda categorie manageriali e dirigenziali). Il 63% delle imprese ha dichiarato che l’introduzione di sistemi basati sull’intelligenza artificiale non ha causato alcuna perdita dei posti di lavoro. Questi due risultati derivano dal fatto che, per molte imprese, l’intelligenza artificiale rappresenta un modo per ottimizzare lo svolgimento di attività ripetitive o le mansioni amministrative: si accelerano i processi aziendali e si eliminano gli sprechi. A tale proposito, l’89% delle organizzazioni intervistate ritiene che l’intelligenza artificiale semplificherà i lavori più complessi mentre l’88% sostiene che le macchine intelligenti coesisteranno con la forza lavoro all’interno dell’azienda.
Il report del World Economic Forum dal titolo “The Future of Jobs 2018” prevede, inoltre, che entro il 2022 l’intelligenza artificiale creerà 133 milioni di nuovi posti di lavoro, ma al contempo 75 milioni andranno persi. Il risultato netto è però positivo: il consolidarsi dell’intelligenza artificiale potrebbe creare ben 58 milioni di posti di lavoro aggiuntivi nei prossimi anni. I ruoli che sono destinati a sperimentare una crescente domanda nel periodo fino al 2022 riguardano i data analyst e i data scientist, sviluppatori di software e applicazioni ed esperti di e-commerce e social media.
Non da ultimo l’undicesimo numero di BellaFactory Focus, edizione dedicata al tema “Umanità aumentata – I robot (non) ci ruberanno il lavoro” del periodico realizzato dal Centro Studi di Fondazione Ergo. Lo studio evidenzia innanzitutto la sussistenza di tre capacità prettamente umane – percezione, manipolazione, intelligenza creativa e sociale – che costituiscono un ostacolo alla completa automazione del lavoro. Le occupazioni a più alto rischio di automazione sarebbero quelle più routinarie (tipiche nei settori di trasporti, logistica, produzioni, amministrazione, vendite – magazzinieri, autisti, contabili, commessi, cassieri) mentre a maggior riparo saranno quelle che richiedono maggiori livelli di intelligenza creativa e sociale (tipiche nel management, finanza, assistenza sanitaria – imprenditori, avvocati, insegnanti, medici, pittori). Tra le occupazioni che, invece, figurerebbero a medio rischio ci sono i baristi, le insegnanti di lingue e i rappresentanti di commercio. Nel caso delle professioni a basso e medio rischio, la quota femminile “sostituibile” risulta inferiore a quella maschile, più elevata, invece, nelle professioni a rischio alto.
Il reale impatto sul mondo del lavoro è un tema ancora controverso e solo il tempo saprà dire la verità. È certamente importante agire in modo tempestivo per limitare le conseguenze che l’automazione potrebbe avere soprattutto su determinate categorie di lavoratori, attraverso azioni e iniziative tese a garantire flessibilità e formazione.