I vegani sono sempre più numerosi, soprattutto fra i giovani, e convertono al loro passaggio i vegetariani timidi, qualche volta fanno sentire in colpa i carnivori, anche se solo quelli deboli di stomaco. Chi mangia cervello fritto resta assolutamente impermeabile all’etica vegana.
Certo, non si può passare indenni dal cervello fritto al frullato di spinaci. Si rischia l’annientamento della personalità. Ma adesso perfino i più tradizionali ristoranti accolgono nel loro menù qualche piatto vegano, anche se in fondo, prima o dopo il menù per bambini, come se comunque si trattasse di un’extra provvisorio, dettato dalla moda del momento e pronto ad essere depennato, caso mai cambiasse il vento. Va riconosciuto che il veganesimo è ispirato da preoccupazioni lecite: mangiare solo quello che non ha origini animali, non fomentare l’industria dello sterminio e l’inquinamento che ne deriva. Nobili intenzioni… I suoi detrattori lo trovano estremista, i suoi sostenitori lo considerano l’unica via d’uscita dalla distruzione del pianeta. Resta comunque il fatto che il veganesimo è percepito come una setta e i suoi accoliti sono visti come i testimoni di Geova dell’alimentazione.
Ma quel che soprattutto manca al veganesimo è un’ideologia, un apparato filosofico che lo renda pienamente una visione del mondo. La rivoluzione francese cambiò anche i nomi dei mesi per sancire la sua diversità dall’ “ancien régime”. La rivoluzione comunista cambiò perfino la visione della storia e dagli egiziani fino ai tempi moderni fu tutta lotta di classe. Il veganesimo deve fare lo stesso. Partendo magari da un testo fondante come “La fattoria degli animali”, per essere più credibile, il veganesimo deve sviluppare una sua cosmogonia, una sua lettura della storia. Ma soprattutto, deve dare un taglio netto all’epistemologia carnivora e uscire dal suo quadro concettuale. In parole povere, il veganesimo deve bandire parole come “hamburger vegano” o “salsiccia vegana” o “bistecca vegana”. Non si può voler rivoluzionare l’alimentazione umana e poi ricalcare il modello alimentare del nemico. Qui è il concetto stesso di hamburger, di insaccato, di fetta di carne animale che deve essere rinnegato. In caso contrario, il veganesimo apparirà sempre come imitazione del carnivoro, succedaneo vegetale di qualcosa di animale. Insomma l’etica vegana sarà sempre percepita come il vorrei ma non posso (o il potrei ma non voglio) rispetto all’alimentazione tradizionale.
Questa “invidia della carne” sta al veganesimo come l’ “invidia del pene” sta alla visione psicoanalitica del mondo e ne intacca la credibilità, lo rende perdente in partenza. Che attrattiva può avere una filosofia dell’alimentazione che rinnega la carne ma rincorre l’hamburger? Il vero vegano non deve avere bisogno di questi sotterfugi per riuscire a mangiare con convinzione solo vegetali.
Serve quindi, come in ogni rivoluzione, anche una purga linguistica. E anche il mettersi a tavola non potrà più essere quello di prima. Via forchette e coltelli che troppo richiamano gli strumenti della macelleria e i piatti che sono lo specchio di pietre sacrificali. Il vegano, che di fatto si richiama all’erbivoro come modello animale, lapperà brodi e brucherà erbe non in sale da pranzo ma in ruminatorie, non seduto a tavola ma sdraiato per terra. Il vegano non si mescolerà ai carnivori in ristoranti che offrono due righe di piatti vegani ma frequenterà locali rigorosamente vegani, dove potrà nutrirsi idealmente anche in compagnia di altri animali. Perché questo dovrà essere il passo successivo verso un coerente e totalizzante veganesimo: frequentare gli animali in un ritrovato paradiso primordiale. Il vegano deve però anche rendersi conto che gli uomini restano mortali e imperfetti. E siccome un mondo peggiore incombe sempre su di noi, il vegano potrebbe in futuro diventare vittima del non vegano rimasto cacciatore e la storia alimentare dell’umanità ricongiungersi in un nuovo cannibalismo. E allora sai gli hamburger di vegano, la salsiccia di vegano, la coscia di vegano, il cervello fritto di vegano…