Facciamo un po’ di conti. Con i risultati definitivi (potrà cambiare ancora qualche dettaglio nei conteggi finali attesi dal Parlamento per l’inizio della prossima settimana, ma i numeri sono questi) emerge per chi hanno votato gli elettori europei. Se si vuole fare un confronto, quello sempre richiamato in questi mesi, tra le forze “antisistema”, euroscettiche, sovraniste, populiste, anti euro da una parte e forze pro europee dall’altra emerge con chiarezza chi ha vinto: i pro europei.
Le cifre sono esplicite: popolari, socialdemocratici, liberali e verdi, sommati, fanno 504 parlamentari, tutte le altre forze messe insieme arrivano a 171. Poi ci sono la sinistra (39 seggi) difficilmente attribuibile, i parte euroscettica, in parte no, forse più sì che no. Infine ci sono i non iscritti e gli “altri”, rappresentanti di piccoli e nuovi partiti che non si sa dove andranno, per il momento.
E’ possibile fare anche un altro ragionamento su questi numeri: le forze pro-EU hanno perso 18 deputati, i “contro” ne hanno guadagnati 16. Per essere equanimi si può dire che gli europeisti hanno perso un numero quasi insignificante di deputati (poco più del 3 per cento, passando da 522 a 504, con una maggioranza a 376) e che i “contro” hanno guadagnato un 10 per cento, salendo a 171 da 155. Dunque si può affermare, per lo meno, che gli elettori europei hanno ampiamente confermato la loro fiducia alle forze che sostengono l’Unione ed hanno deciso che i partiti antisistema non meritano di guidare l’UE.
Potremmo poi dilungarci sulla coesione interna di questi gruppi, per dire che gli europeisti appartengono a quattro partiti europei, con un indice di collaborazione piuttosto alto, mentre i “contro” non hanno un solo partito europeo e si distinguono in almeno una trentina di forze nazionali che poi si riuniscono in tre gruppi parlamentari.
Si può anche aggiungere che se ci sarà la Brexit i “contro” perderanno 33 deputati e i “pro” 37, passando a 138 contro 467. Un taglio che, ovviamente, peserebbe molto di più sul gruppo più piccolo.
Poi è vero, in qualche Paese, segnatamente l’Italia o il Belgio, i sovranisti hanno avuto un indubbio successo (non in Francia, dove Marine Le Pen pur restando prima come era alle precedenti europee e alle precedenti legislative, ha perso un uno e mezzo per cento). Ma i casi singoli non contano in queste prove elettorali. Quel che importa è la somma. Ad esempio, il Pd avrà pure vinto a Milano, ma resta sempre dietro alla Lega nella Lombardia nel complesso (e in Italia). Maggior peso potranno averlo queste forze (che restano comunque largamente minoritarie) quando nomineranno, quando sono al governo, i loro commissari europei e, ovviamente, sempre quando governano, nel Consiglio europeo.
Allora, quale maggioranza possiamo aspettarci domani? Dipenderà dal progetto che si avrà in mente: se si vorrà ridiscutere seriamente e ampiamente come rilanciare l’Unione allora un progetto largo, che comprenda PPE, PSE, Liberali e Verdi sarebbe necessario. Altrimenti c’è l’accodo a tre, escludendo i Verdi. I numeri sarebbero comunque solidi. Con rammarico per l’Italia che non ha rappresentanti nei due gruppi emergenti, liberali e verdi.
Forse però se una volta l’Europa politica si fermasse a riflette davvero sul suo futuro, su quello che chiedono i cittadini, se si analizzassero le tendenze espresse nelle urne, che hanno sonoramente bocciato i due partiti con i quali si identifica il “potere” europeo (PPE e PSE), emergerebbe con chiarezza che non si può continuare a navigare a vista, e che questo voto fornisce l’occasione e i motivi per ripensare tutto. Dimostrando che la Commissione Juncker, che ha amato definirsi quella “dell’ultima chance”, ha sbagliato anche su questo, e che una chance i cittadini l’anno offerta ancora una volta. Facciamo sì che non sia stata l’ultima.