Roma – Europa a un bivio e l’Italia che resta sempre indietro comincia a spaventare i nostri partner. All’indomani delle previsioni economiche di primavera, attese e senza grandi sorprese, le riflessioni sulle speranze dell’UE, su una visione a lungo termine, si incrociano nel vertice di Sibiu in Romania, a meno di venti giorni dal voto europeo. Un summit dal carattere fortemente simbolico soprattutto per il futuro comunitario, le sfide della Brexit e le derive sovraniste, le relazioni con i colossi Usa e Cina, l’agenda strategica fino al 2024.
Elezioni “snodo cruciale per l’Europa” secondo l’Istituto Affari Internazionali che ha affidato a Silvia Merler, capo della ricerca di Algebris Policy & Research Forum, il compito di puntare il faro su quello che sta diventando “il caso italiano”. Premessa e conclusione portano alla luce un quadro dove i dati politici, economici e di opinione sono convergenti: l’Italia è diventato un paese outlier, anomalo per dirla in termini statistici. Il rapporto è nei numeri e nei grafici, non solo degli ultimi anni ma più lontani nel tempo, fino al periodo pre-crisi e all’alba dell’eurozona.
Il confronto con i membri della cosiddetta area nord e sud dei 28, fa emergere lo scarto italiano che attraversando i diversi periodi, mantiene un debito in costante crescita, così come la spesa corrente e non solo durante la crisi e un reddito pro capite immutato da vent’anni. La bassa crescita è solo la spia di qualcosa di molto profondo, per fare un esempio della produttività ferma specie nella manifattura high tech, incremento che invece ha migliorato la competitività di tutti gli altri paesi. La disoccupazione strutturale e di lungo periodo che attraversa i quasi due decenni di moneta unica è un altro aspetto che ci ha fatto diventare anomali. L’analisi diventa sconfortante sulla formazione: non solo si studia poco ma studiare non paga, se si guarda ai numeri dei nostri cervelli che abbandonano l’Italia, dove in proporzione ai partner si guadagna meno.
Un contesto in cui siamo sempre più soli e indietro, mentre si riducono le distanze tra l’Europa locomotiva dei Paesi più forti e le altre carrozze. Le due velocità non sono più così marcate, tendono a convergere (al ribasso), ma i dati macro dell’Italia non sembrano seguire questo andamento.
Cause che vengono da lontano, da troppi aggiustamenti mancati nei periodi in cui il ciclo economico era più favorevole. Ora, alla vigilia del voto, c’è anche un contesto politico che nel rapporto con l’UE ci assimila più alla Gran Bretagna che agli stati fondatori. Siamo amici di Bannon ma abbiamo più nemici in Europa, “è ’Italia che ha rotto lo schema destra/sinistra per scegliere il dentro/fuori dall’UE”, dice Nathalie Tocci, direttore dello IAI. Per questo ha mille occhi puntati addosso, portandosi dietro un rischio politico che può condizionare anche le performance economiche.
Con le previsioni di primavera la Commissione ha strategicamente rinviato a dopo il voto le indicazioni di correzione dei nostri obiettivi di bilancio, ma più che Bruxelles saranno i mercati, in estate e in autunno, a mettere alla prova la tenuta finanziaria. Siamo sempre too big to fail o qualcosa è cambiato? “È vero che lo stock maggiore di debito è all’interno”, dice Lilia Cavallari docente di economia internazionale a Roma Tre, ma questo non cambia le conseguenze estese di un eventuale default. La “malattia italiana”, per la stragrande maggioranza degli osservatori e analisti non si cura indebolendo ulteriormente l’Unione, anche se una difesa del fortino non basta più a salvarla. Serve un “cambio di passo” suggerisce Silvia Merler e le sfide di Usa e Cina possono diventare un elettroshock esterno e si può reagire solo rafforzando l’UE. Se vuole restare nel club anche l’Italia dovrà fare i conti con questi orizzonti.