Bruxelles – La COP26, la conferenza sul clima dell’ONU a Bruxelles? Si. Anzi, ‘nee’. I Fiamminghi si oppongono all’idea del resto del Paese per ragioni di costi. OK a clima e sostenibilità, ma chi pensa alla sostenibilità economica? Queste le preoccupazione dei belgi fiamminghi, che vedono nell’organizzazione della conferenza mondiale una spesa eccessiva. Con un debito pubblico ben oltre la soglia del 60% in rapporto al PIL (99,8%) da dover correggere e ridurre, la parte settentrionale del regno vede nella COP26 un’eccessiva e controproducente manifestazione. Si rende perciò necessaria un’analisi costi-benefici.
I francofoni di Belgio non l’hanno presa bene. Definiscono “deplorevole” la resistenza della parte neerlandofona del Paese. Ma la conferenza ONU è divenuta motivo di ulteriori attriti tra le due comunità linguistiche fin dall’inizio. A fine di novembre, in occasione della conferenza tenuta a Katowice, in Polonia, il ministro per il Clima della regione Vallonia (francofona), Jean-Luc Crucke, ha annunciato l’intenzione di ospitare la stessa manifestazione in Belgio. Ciò senza avvertire né consultare la regione Fiandre, fondamentale per avere la conferenza sul clima dato che la Vallonia da sola non dispone dei mezzi per organizzarla.
I fiamminghi non vogliono mettere mano al portafoglio. Il compromesso ‘alla belga’ richiama una soluzione nota in Italia e, grazia all’Italia, all’Europa: uno studio sulla valutazione dei costi e sulla fattibilità della cosa. Un’analisi costi-benefici. Che però sarà finanziata dalla regione Vallonia, dalla regione di Bruxelles capitale e dal governo federale. Niente partecipazione delle Fiandre. Che rischiano di far fare una brutta figura ad un Paese che tiene a farsi promotore del rilancio delle politiche verdi a livello internazionale.
Non è la prima volta che le realtà regionali del Belgio (Stato federale composto da tre entità: Fiandre al nord, Bruxelles al centro e Vallonia al sud) puntano i piedi su questioni internazionali. Nel 2016 il parlamento vallone aveva minacciato il veto sull’accordo commerciale tra UE e Canada (CETA), mettendo il governo federale nell’impossibilità di sottoscrivere e ratificare il trattato prodotto, non senza fatica, dai negoziatori della Commissione europea.