Bruxelles – L’Italia sta ancora affrontando diversi casi di mala gestione dei rifiuti, dalle discariche non in regola ai reati connessi al trattamento di rifiuti pericolosi da parte dei gestori, da società di raccolta e di produzione di rifiuti nonché da compagnie incaricate di effettuare le analisi chimiche dei rifiuti. Proprio su questi ultimi la Corte di Giustizia si è pronunciata tramite le sentenze nelle cause riunite C-487/17 , C-488/17 e C-489/17, in cui è stata riscontrata poca attenzione nei confronti della gestione dei rifiuti con codice numerico identificativo speculare (CER speculare o codici specchio).
In Unione Europea abbiamo un sistema di classificazione dei rifiuti basato sul riconoscimento tramite codice, il quale informa sulla loro pericolosità. I codici CER dispongono di 6 cifre: le prime due, denominate “capitolo” per identificare da quale processo produttivo è stato generato il prodotto, mentre le successive due cifre dettagliano più nello specifico da quale attività provengono. Infine, la terza coppia è riferita alla sostanza di scarto e la sua consistenza fisica.
Un esempio potrebbe essere il codice 01 01 01, in cui il capitolo ci informa che fa parte della macrocategoria dei “Rifiuti derivanti dalla prospezione, l’estrazione, il trattamento e l’ulteriore lavorazione di minerali e materiali di cava”, il secondo gruppo ci fa sapere che parliamo di “rifiuti di estrazione di minerali”, mentre gli ultimi due numeri specificano come tali rifiuti derivino da attività di “estrazione di minerali metalliferi”.
Abbiamo poi i codici speculari, necessari nel caso di rifiuti che possono essere pericolosi o meno a seconda dell’attività che li ha generati. A seconda di come un bene sia stato prodotto possono variare le concentrazioni di determinate sostanze, che possono così essere definite più o meno pericolose per l’ambiente. Per capire quale danno possano procurare questi articoli è indispensabile dunque che si facciano delle analisi chimiche.
In Italia, ad oggi, sono circa 30 le persone responsabili delle discariche o dei controlli che sono state denunciate per non aver trattato in maniera adeguata quei rifiuti di cui non si conoscesse la pericolosità, oppure che hanno eseguito studi non esaustivi e parziali su questi beni.
Proprio nei casi su riportati, presentati alla Corte di Giustizia dalla Corte di Cassazione italiana, è stato chiesto se chi è in possesso di un rifiuto con codice a specchio di cui la composizione non sia immediatamente nota debba ricercare se tale prodotto contenga una o più sostanze pericolose al suo interno, ed in caso di risposta positiva quali metodi debbano essere usati e con quali criteri. La Cassazione ha poi richiesto maggiori chiarimenti se nei casi di dubbio riguardo le suddette caratteristiche, o nell’impossibilità di determinarle con assoluta certezza, i responsabili debbano applicare il principio di precauzione e classificare in automatico il rifiuto come pericoloso.
La risposta è stata chiara. Dal momento che le discariche che possono gestire rifiuti pericolosi sono designate da delle autorizzazioni speciali, chi è in possesso di questi generi di immondizia a codice speculare è anche responsabile della sua gestione, dovendogli attribuire il codice più appropriato per il suo smaltimento. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha tenuto a specificare che non si è responsabili di dover tenere traccia di tutte le sostanze pericolose, ma, come si legge nel loro comunicato, “conformemente al principio di precauzione, solo di quelle che possono ragionevolmente trovarsi in tale tipo di rifiuto”.
Sulla seconda questione invece, la Corte ha dato risposta affermativa, sostenendo come tale principio di precauzione impone di classificare qualsiasi rifiuto come pericoloso nel caso in cui non si abbiano o non si sia potuti arrivare ad avere informazioni riguardo la sua composizione.