Che il Parlamento europeo abbia adottato la direttiva sul copyright è senz’altro una buona notizia. D’ora in poi le creazioni di artisti e editori godranno di una maggiore tutela nel fluido mondo del web. C’era grande bisogno di una normativa che garantisse, assieme alla giusta remunerazione della creazione artistica e dell’edizione, anche la libertà di espressione che ad essa si accompagna. Perché non c’è libertà di espressione se i singoli creatori non riescono a mantenersi attraverso le loro produzioni mentre i giganti del web possono contare su lucrosi guadagni pubblicitari.
Ma la questione del copyright e più in generale dell’originalità della creazione artistica è ricorrente e resta aperta perché resta irrisolto il dilemma filosofico che la sottende. Il copyright nasce con l’industrializzazione, quando ci si accorge che la riproduzione su vasta scala annullava l’opera del pittore o dello scultore. Si è cercato così di proteggere con una legge l’originalità della creazione. Una legge che richiede continui adattamenti, perché il concetto stesso di copia è aperto a diverse interpretazioni e non è lo stesso in tutte le culture del mondo. Basti pensare che per i cinesi la vera arte è copiare perfettamente e incessantemente un modello e anche la lingua cinese è strutturata in espressioni figurate ricorrenti che per loro rendono la comunicazione molto più semplice mentre noi la giudicheremmo piatta. Ma anche nella nostra cultura la copia non è stata sempre messa al bando. Abbiamo i musei pieni di copie romane di statue greche e Ariosto copia dal Boiardo l’Orlando Furioso già copiato dai chansonniers provenzali, prova che l’originalità non è sempre stata considerata un pregio in sé.
Nel mondo moderno siamo continuamente esposti al copiare, al fotocopiare, al riprodurre, allo scaricare immagini e musica più o meno legalmente da internet. L’arte contemporanea non esita a usare immagini riprodotte mille e mille volte per creare nuove opere, come le Marilyn di Andy Warhol, che di fatto celebrano proprio questo: l’infinita riproducibilità di ogni cosa e la conseguente perdita di senso della creazione.
Nel suo saggio “In praise of copying”, il saggista americano Marcus Boon esplora la questione e individua interessanti sfumature che gettano una nuova luce sul copiare. Il caso più interessante è quello delle borse di Vuitton, che ormai contano per il 99% di tutte le borse Vuitton prodotte nel mondo. Bloom scopre che esiste addirittura una gerarchia della copia, con prodotti confezionati a mano da veri artigiani e altri, più scadenti, riprodotti a macchina. La copia acquisice quindi una autenticità in sé, diventa copia di qualità, al punto che poco ormai importa quale sia l’originale, quale l’imitazione. Lo stesso ragionamento vale per beni immateriali come ad esempio la romanità o l’italianità di un paesaggio o di un luogo turistico. Molti turisti stranieri rimangono delusi vedendo il Colosseo. È tutto in rovina, se lo immaginavano come nel film “Il gladiatore”. Preferiscono allora andare a visitare la romanità finta allestita nel centro commerciale di Valmontone, dando così alla copia, anzi al falso, maggiore dignità che all’originale.
Due esempi che ci mostrano quanto sia complesso regolamentare la creatività umana, che sfugge a ogni catalogazione e quanto la nostra percezione del valore di una cosa sia soggetta alle più imprevedibili incognite, forse talvolta immorali o vili, comunque tutte umane. Ma la cosa più eloquente riguardo al copiare Marcus Boon la dice mettendo il suo libro in libero accesso su internet e rinunciando così ai suoi diritti d’autore. Con il risultato che tutti lo copiano, sì. Ma anche lo citano e danno diffusione al suo pensiero.