Bruxelles – Il timore di una Brexit senza regole, disordinata e caotica. E la certezza che tutto questo incida sull’agenda politica, distogliendo attenzioni e sforzi “sulle cose che contano” forse più di un dibattito politico trascinato troppo oltre. L’Aula del Parlamento europeo offre tutta la frustrazione di anni di negoziati visti come gettati al vento per colpa non tanto di condizioni di uscita non ricevibili ma per la crisi politica di Londra, incapace di accettare o di rilanciare.
Le posizioni non cambiano, e l’UE è pronta al peggio. La situazione butta talmente male che, sorpresa generale, dai banchi dell’ECR, il gruppo dei conservatori europei dove siedono i Tories britannici, si suggerisce di evitare la Brexit e lasciare il Regno Unito nel club a dodici stelle.
“La Brexit non è solo una disastro per il Regno Unito, è un disastro anche per l’Unione europea. Senza il Regno Unito, questa Unione resterà non competitiva. Aiutiamo il Regno Unito a indire un secondo referendum, diamogli un’estensione incondizionata”. Parole di Hans Olaf Henkel, deputato europeo in quota Alternative fur Deutschland (AfD). Un tedesco, ma soprattutto un sovranista, esponente di un movimento che in Germania tanto ha detto e tanto ancora dice contro l’UE. Se anche gli anti-europeisti si esprimono contro la decisione dei britannici, vuol dire che forse è solo a Londra che si continua a non vedere il problema.
Dai banchi dell’Europarlamento si parla di “fallimento politico” della classe dirigente britannica. Lo scandisce il capogruppo dei popolari (PPE), Manfred Weber. Lo ripete, in altro modo, la socialdemocratica Merces Bresso quando lamenta che “alla Camera dei Comuni non sanno cosa vogliono”. Lo torna a scandire un altro cristiano-democratico, il ceco Luděk Niedermayer, convinto che “il problema non è tanto l’accordo di ritiro, quanto la crisi politica in atto a Londra”.
Eppure è proprio l’accordo offerto dall’UE alla controparte britannica lo scoglio su cui si sono incagliate le speranze di una soluzione ordinata all’addio di Londra. Neppure le ultime rassicurazioni giuridiche offerte par dare maggiori garanzie sui contenuti dell’accordo hanno consentito di trovare una via d’uscita. Questo è un problema. Perché indietro non si torna, e avanti si va solo se lo vorranno – e soprattutto se lo potranno – i britannici.
“Se il Regno Unito vuole un’uscita ordinata dall’EU, l’accordo che abbiamo negoziato per un anno e mezzo è il solo accordo possibile”, scandisce Michel Barnier, il negoziatore capo dell’UE. “Non ci saranno ulteriori interpretazioni. Abbiamo fatto tutto il possibile per venire incontro al Regno Unito. Ora spetta al Regno Unito fornire risposte prima di un’eventuale estensione” del periodo negoziale e di una permanenza nell’UE.
L’Unione chiude dunque le porte in faccia. Spazientita, mostrando la convinzione che il tempo per evitare il peggio non c’è più. “Il rischio di una hard Brexit non è mai stato così alto”, scandisce Barnier. Nel frattempo Londra questo peggio cerca di scongiurarlo, con un piano di taglio dei dazi sulle importazioni in caso di Brexit senza accordo. Un regime che potrebbe durare anche un anno, per negoziare vie alternative con un partner stanco però di trattare tanto e ottenere poco.
Il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, non è più in vena, e abbandona i britannici per concentrarsi sugli europei. “La nostra posizione non cambierà. Le soluzione ora le fornisca Londra. Il nostro dovere adesso è di pensare ai nostri cittadini e alle nostre imprese, al di qua e al di là della Manica”.
Anche i liberali scaricano ‘de facto’ Londra. “Non voglio un’estensione” dei negoziati né della permanenza del Regno Unito nell’UE, dice a chiara voce il capogruppo dell’ALDE, Guy Verhofstadt. “Con le elezioni europee alle porte l’intero dibattito politico sarà dirottato sulla Brexit”. E poi, aggiunge, “Un’estensione per cosa? Sono contro ogni tipo di estensione senza una chiara posizione della Camera dei comuni”. Che non c’è.
I piani d’emergenza ci sono, e si pensa a usarli. Persino la presidenza romena di turno del Consiglio, finora rimasta composta di fronte alla questione Brexit, decide rompere il protocollo auto-impostosi. “Essere o non essere nell’UE? Esiste o non esistere? Questa è il quesito a cui deve rispondere il Regno Unito. Purtroppo non parliamo di teatro, ma di vita vera e di posti di lavoro reali”, ammonisce Melania Gabriela Ciot, ministro per gli Affari europei della Romania.
Il dibattito si inasprisce ancora di più quando Timmermans decide di rispondere a brutto muso a Nigel Farage, capofila dei ‘Brexiteers’, che sosteneva che “l’unica soluzione possibile è uscire”, ma senza spiegare come. “La Brexit – alza la voce Timmermans – costerà il 9,3% del Pil. Siete pronti a pagare questo prezzo? Siete pronti a pagare tutti questi posti di lavoro?”. “La libertà è più importante”, lo interrompe David Coburn (EFDD), sostenitore della Brexit, interrotto a sua volta dalla vicepresidente del Parlamento europeo, Mairead McGuinnes (PPE), irlandese. “Signor Coburn, provi a non interrompere, e provi invece ad ascoltare e magari imparare”.
Il dibattito in Parlamento che doveva servire a parlare del vertice dei capi di Stato e di governo si trasforma in un dibattito sulla Brexit, a conferma dei timori di quanti pensano che bisogna chiudere, anche a costo di uscite disordinate, per lavorare sul resto. Anche perché i forse una volta simpatizzanti dei conservatori britannici oggi sono molto anglo-scettici. “La Brexit si è tramutata in un grande caos”, riconosce Ruža Tomašić, membro croato dell’ECR, sempre il gruppo dei conservatori britannici. Scaricati pure dallo slovacco Richard Sulik, anch’egli un ECR. Da parte sua nessun’altra chance. “L’accordo di ritiro è morto. Prepariamoci ad una hard brexit”.