Pubblichiamo l’intervento del nostro direttore Lorenzo Robustelli apparso due giorni fa su Europea, la piattaforma autonoma istituita su iniziativa dell’Istituto Affari Internazionali, Centro Studi sul Federalismo, Centro Studi di Politica Internazionale, European Council on Foreign Relations, Formiche, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e Villa Vigoni con l’obiettivo di fornire informazione puntuale e indipendente sui rapporti tra l’Italia e l’Unione europea e accompagnare il dibattito pubblico dei prossimi mesi verso le elezioni europee di maggio.
Comunicare l’Europa è spesso un esercizio molto piacevole, davvero interessante. Quanto infruttuoso.
Se sei ad esempio un giornalista che dirige un giornale on line dedicato agli affari europei è frequente, soprattutto nella bella stagione, tra fine marzo e fine settembre, quando il clima è più dolce, essere invitato in giro per l’Italia, in bellissime città grandi e piccole, dal Trentino alla Sicilia per “comunicare l’Europa”.
Si lavora, è impegnativo, ma anche si mangia bene, si passeggia, si chiacchiera, ci si scambiano riflessioni e idee. Si incontrano tanti cittadini davvero interessati, molti giovani, e poi la solita compagnia di professionisti dell’Europa, un gruppo coeso, che ha anche posizioni diverse, ma unito nell’abbraccio per la sopravvivenza. Già, perché “comunicare l’Europa” è tanto piacevole quanto infruttuoso e questo sforzo, bei posti e professionismo a parte, è davvero figlio di una passione, di una convinzione politica, di un gruppo di persone non numeroso che crede nella necessità di far conoscere e coinvolgere in un impegno, senza retorica ma nella certezza che, buona o no, ben fatta o no, la dimensione europea è quella nella quale siamo, nella quale dobbiamo rimanere.
L’Unione è difficile da spiegare?
La difficoltà del comunicare l’Europa non deriva dal fatto che manchi l’interesse dei cittadini, che seppur diffuso e pieno di potenziale, fatica ad emergere (cercheremo di capire perché). La difficoltà, in Italia come in altri Paesi dell’Unione, sta nel manico. Sta nella politica nazionale, nelle istituzioni europee, in tanti giornalisti, in una scuola che non forma sui temi europei.
La frase che sempre, assolutamente sempre si sente pronunciare nelle accoglienti cittadine che citavamo prima durante i dibattiti, da persone che lo dicono usando anche un’espressione carbonara del viso, lanciando uno sguardo di intesa (presunta) con gli altri oratori, perché intesi come esperti del tema e protettori di qualche segreto ancora da rivelare al volgo, è: “Il problema è che l’Europa è complessa, ed è difficile da spiegare”.
Non tanto, ma servono informazioni corrette e trasparenti
Questa è una menzogna. Non credeteci. Ogni cosa è complessa, dalle regole del gioco del calcio a quelle per far volare un vettore che porta un rover su Marte. Eppure, per tutte e due le cose, esiste un livello di conoscenza pienamente sufficiente a comprendere i fatti essenziali che stanno accadendo, anche a farsi un’opinione. I ragionamenti statistici o guidati dall’osservazione della realtà del momento che fanno i portieri prima di tentare di parare un rigore, sono ignoti ai più, come anche sulla regola del fuori gioco abbiamo in tanti molte lacune, per non dire del fatto che praticamente nessuno sa come si svolge un programma di allenamento di una squadra, ma questo non ci impedisce di godere dello spettacolo, di tifare, e di dire cose ragionevoli, quando non si è presi dalla foga del tifo, su quanto abbiamo osservato.
Per l’Europa è lo stesso, non serve sapere le regole del “trilogo” per capire che Parlamento, Commissione e Consiglio devono mettersi d’accordo perché nasca una direttiva. Il problema è l’osservazione. Nel calcio e nel rover che gironzola su un pianeta, è piuttosto semplice: basta sedersi (o anche stare in piedi) e guardare quel che si vede. Per capire l’Europa l’osservatore non può far da solo: ci vuole qualcuno che gli racconti quel che accade. Raramente i cittadini hanno fonti dirette di osservazione di quel che accade in un Consiglio europeo o in un incontro tra Giuseppe Conte e Angela Merkel (ops… questo è, almeno nel caso della chiacchierata su Matteo Salvini ‘rubata’ in un bar, l’esempio sbagliato). Ci si deve fidare in quello che viene raccontato nelle conferenze stampa o nelle ricostruzioni che ne fanno i giornalisti, approfittando di qualche fonte che concede una chiave interpretativa in più.
L’Unione europea è la dimensione nella quale vivono i cittadini europei, ed avrebbero il diritto di essere ben informati di quanto vi accade, almeno allo stesso livello di trasparenza (nel senso di osservazione più o meno diretta e ravvicinata) di quanto accade nella politica nazionale.
A Bruxelles spesso si collabora, superando le divisioni
Invece l’Ue è per molti uno strumento per fare politica a livello nazionale, usato informando il meno possibile i propri cittadini di quanto realmente accade, perché lì accade spesso una cosa bellissima: si lavora nell’interesse comune superando barriere di partiti e di Paesi. Non è sempre così, non siamo romantici idealisti, la gestione delle politiche migratorie è una vergogna che abbiamo davanti agli occhi, una fiera di menzogne e di egoismi (che tra i tanti frutti hanno portato anche la Brexit) paragonabili solo ai peccatori dell’Inferno di Dante. Ma spesso, molto più spesso di quanto si venga a sapere nei singoli Paesi, i deputati europei, ad esempio, votano insieme, destra e sinistra, ungheresi e belgi, italiani e francesi per una legislazione che si ritiene essere un bene comune. Nei singoli Paesi questo non accade, o accade molto raramente. Su questioni di un certo peso la distanza tra maggioranza e opposizione è ben netta: una vota sì e l’altra vota no.
In Europa accade, ad esempio, che l’Italia, anche quella rappresentata da Giuseppe Conte, approva con tutti gli altri governi, le sanzioni contro la Russia per il mancato rispetto degli accordi di Minsk (quelli venuti dopo l’invasione della Crimea). Fino al momento in cui scriviamo è stato così. E allora come lo spieghi ai tuoi elettori ai quali invece dici che quella della Crimea non fu un’invasione e che Vladimir Putin è un leader da seguire?
Come spieghi che le regole per l’assegnazione dell’Agenzia del farmaco dopo la Brexit le hai decise anche tu (e qui parliamo dei governi del centrosinistra) e che nel metterle nero su bianco non avevi pensato alla possibilità che qualcuno si astenesse, dunque i tuoi piani sono saltati e Amsterdam si è presa la nuova sede, che non è andata a Milano?
E invece da noi…
Allora è meglio buttarla sempre in caciara. Raccontare che quando a Bruxelles si fa una cosa che si apprezza è merito del governo, e quando invece la cosa non ci piace è perché ci hanno messo in minoranza, a noi leoni che invece abbiamo combattuto fino alla fine contro l’Europa matrigna.
C’è un esempio ancora che voglio portare: la strategia comunicativa del Movimento 5 Stelle al Parlamento europeo. Recentemente, ma questo è solo un esempio tra i tanti, a Strasburgo è stata respinta una proposta della Commissione europea che prevedeva il taglio dei fondi Ue ai Paesi che non rispettano gli obiettivi economici. Il voto contrario è stato ampio, ha coinvolto il gruppo dei socialdemocratici, della sinistra ed altri. A votare contro anche i deputati 5 Stelle, che sono, per ora, una manciata e che non avevano un ruolo decisivo nella formazione della volontà parlamentare, ma la loro comunicazione è stata: “E’ una nostra vittoria”. Un’informazione che stravolge quanto è successo, che fa apparire una realtà politica molto diversa da quella reale.
Spesso anche noi giornalisti cadiamo in questi tranelli. Abbiamo poco spazio nei giornali nazionali, e lo dedichiamo di norma solo alle cose “sensibili” per il nostro Paese, e le raccontiamo come nel nostro Paese immaginiamo possano essere digeribili, non come realmente accadono. Quando siamo a Bruxelles e le abbiamo viste, perché molto spesso l’Europa viene raccontata da chi in Belgio ci ha messo piede solo qualche volta, se lo ha fatto.
Slow social
La redazione di Europea, nel chiedermi queste righe, che ho scritto con grande piacere, mi ha invitato a una riflessione sullo “slow social” in Italia. Cioè sulla possibilità di sviluppare un utilizzo dei social media che non sia limitata ai pochi secondi che richiede il leggere un tweet e magari commentarlo, ma che sia veicolo per la trasmissione di messaggi e anche documenti più articolati, che guidi ad una conoscenza che non sia solo superficiale ed umorale. Ho dei dubbi che la cosa possa avere un grande successo. Sono andato a cercare nella rete una definizione di “slow social” in italiano ed ho trovato davvero poco, il che dimostra che il fenomeno, se nascerà, non è ancora maturo. Anche perché, tranne pochi tipi di utenti che usano già da tempo i social per diffondere conoscenze più approfondite, ho l’impressione i social coinvolgono una massa di persone che non cerca lì un impegno, un approfondimento, ma piuttosto vuole conferme, o informazioni per svolgere attività.