Per capire bene che cosa significhi la nomina di Lino Banfi a membro della Commissione italiana dell’UNESCO bisogna prima sapere quali sono i ruoli e i compiti di quest’organo presieduto da Franco Bernabé. Le Commissioni nazionali UNESCO sono nominate dai governi dei paesi che aderiscono all’organizzazione e hanno, fra gli altri, il compito di dare pareri sui suoi programmi, associano ai loro lavori persone ed enti che svolgono attività nei campi educativi, culturali e scientifici, conducono indagini preliminari per la concessione dei patrocini, esaminano e trasmettono eventuali progetti che necessitano di sostegno finanziario secondo le modalità previste ed esprimono pareri e suggerimenti sugli aspetti educativi, scientifici e culturali dei progetti da realizzare nell’ambito della politica di cooperazione allo sviluppo del paese.
Non si vede come uno dei protagonisti di “La poliziotta della squadra del buon costume” possa avere alcuna competenza in queste materie e appare dunque chiaro che questa nomina è un’ennesima mossa nella perenne campagna elettorale giallo-verde che in vista delle elezioni europee usa anche la politica estera per cercare di conquistare consensi fra gli elettori più sprovveduti e più sensibili alla demolizione di tutto quello che per loro rappresenta l’establishment, cultura compresa. Un atto che si aggiunge alle provocazioni antifrancesi nell’ormai lunga lista di gesticolazioni che non solo stanno isolando politicamente l’Italia ma stanno facendo regredire la sua immagine e il suo prestigio.
Nominare in una struttura dell’UNESCO un attore che rappresenta un filone pecoreccio e di cattivo gusto del cinema italiano è innanzitutto un gesto di spregio nei confronti dell’organizzazione internazionale che del resto viene attaccata oggi da altri populismi, primo fra tutti quello di Trump, che ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’UNESCO. Ma per l’Italia infangare l’UNESCO è un fragoroso autogol, considerato che il nostro paese conta il maggior numero di siti UNESCO nel mondo, vere e proprie miniere d’oro che ci portano flussi continui di turismo internazionale. Senza dimenticare il ruolo dei nostri Carabinieri che partecipano alle missioni UNESCO di tutela del patrimonio culturale nel mondo.
Che grillini e leghisti ce l’abbiano con la cultura non è una sorpresa. Chi è in grado di leggere i fatti attraverso la lente della consapevolezza e della cultura non vota per loro. Ma quello che fa riflettere è il percorso che ha portato gli italiani a detestare la ricchezza nazionale che li ha sempre caratterizzati nel mondo. La cultura oggi in Italia viene associata alle élites e all’establishment che sono considerati responsabili di tutte le disgrazie del paese. Ma curiosamente la classe politica che in prevalenza ha dominato la scena politica italiana dal 1994 ad oggi è stata invece la massima espressione dell’incultura. È il berlusconismo che ha portato alla ribalta l’uomo che si fa da sé, con furbizia e spregiudicatezza, senza bisogno di titoli di studio e riconoscimenti. Nel Ventennio berlusconiano le lauree si comperavano in Albania e Pompei crollava pezzo dopo pezzo.
Oggi verosimilmente gli elettori giallo-verdi sono proprio quegli italiani nati e cresciuti nell’Italia berlusconiana, allergica alla cultura, dove i genitori picchiano gli insegnanti per i cattivi voti dei loro figli, dove le università italiane sono agli ultimi posti nelle classifiche mondiali e il numero dei laureati è fra i più bassi in Europa. Abbandonando la cultura, gli italiani hanno perso la cognizione di sé e della loro tradizione. In un tempo in cui radici e identità sono diventati elementi così centrali per definire un proprio spazio nel mondo globalizzato, il governo giallo-verde che tanto ne rivendica l’importanza è il primo ad averli in spregio. La cultura intesa non come sapere arido e nozionistico ma come viva consapevolezza del proprio tempo, conoscenza e comprensione delle arti, capacità di coltivare ed esprimere un gusto, negli anni Settanta e Ottanta aveva raggiunto in Italia grande diffusione, senza più essere riservata a pochi. La si considerava una conquista, una nuova ricchezza alla portata di tutti.
Oggi ancora di più l’accesso alla cultura è facilitato dalle nuove tecnologie, dalla grande offerta di opportunità per fruirne e potrebbe davvero raggiungere ogni singolo individuo. Ma la maggioranza degli italiani la denigra e manda al governo uomini a cui manca il senso della nostra nazione e la conoscenza del suo spirito. Uomini che stanno dilapidando la sostanza che ci ha formati e tenuti insieme per secoli, anche quando uno Stato italiano non esisteva. Grazie a loro diventeremo davvero quello che Metternich ci definiva con disprezzo: non uno Stato ma solo un’espressione geografica.