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    Home » Editoriali » Il fascismo della divisa

    Il fascismo della divisa

    Diego Marani di Diego Marani
    18 Gennaio 2019
    in Editoriali
    Yukio Mishima

    Yukio Mishima

    La recente mania dell’uniforme sviluppata da alcuni politici italiani tradisce fantasmi che vanno esplorati, anche per capire meglio nelle mani di chi siamo caduti. Travestirsi è un atto comune nella storia dell’umanità. Nasce con il travestimento propiziatorio nell’animale che si desidera catturare. Con il Carnevale diventa un temporaneo nulla osta alla trasgressione purché dietro una maschera. Spesso a Carnevale ci si traveste da politici, per prenderli in giro.

    È dunque comprensibile che anche i politici di questi tempi abbiano voglia di rispondere al fuoco. Non si capisce però questo accanimento contro le divise di onorati corpi militari, gli ultimi che un politico dovrebbe prendere in giro.

    La psicologia chiama travestitismo il comportamento che spinge un individuo a indossare abiti del sesso opposto per raggiungere l’eccitazione sessuale. Come il bambino che nel percorso della sua maturazione sessuale indossa i vestiti della mamma di nascosto e la imita davanti allo specchio. Quando è un adulto a travestirsi le cose però si complicano e l’atto può essere rivelatore di traumi o di altre patologie. Soprattutto la divisa militare è carica di una simbologia che va dalla velleità di potere, alla presunzione di forza ma anche al mascheramento di una debolezza.

    “L’uniforme traccia dei limiti, serve da totem, rivela o nasconde, conferma legittimità e sopprime l’individualità”, scrivono gli studiosi Nathan Joseph e Nicholas Alex dell’Università di New York. Il travestimento con la divisa attribuisce a chi non ce l’ha una reputazione e un’appartenenza, sopperisce con i galloni, seppur posticci, alla mancanza di un adeguato status sociale e di istruzione, all’incompetenza o alla scarsa credibilità. Con fantasiose divise si sono sempre camuffati tutti i dittatori, come i tanti despoti africani, da Bokassa a Amin Dada, che si coprivano il petto di medaglie, stemmi e cordoncini colorati. Fino all’inimitabile Gheddafi, che venne a Roma conciato come un ulano settecentesco. La divisa lancia messaggi, delimita sfere di influenza. Nelle grandi occasioni il Maresciallo Tito usava indossare la divisa di ammiraglio della marina per asserire la sua appartenenza croata e bilanciare così lo strapotere serbo nell’esercito iugoslavo. Lo stesso fece dopo di lui Franjo Tudjman, per insinuare che era lui ora ad aver preso il posto e la divisa di Tito. Ma la divisa anche esimia dall’avere un’identità, una personalità propria, è di per se stessa mimetica e chi la indossa affida a un simbolo i propri connotati. Indossare la divisa del nemico è considerato un crimine di guerra ma solo se così camuffati si viene sorpresi a combattere.

    Travestirsi resta comunque un atto controverso. Oggi è diventato offensivo travestirsi da pellerossa o da geisha giapponese, perché nella contorta filosofia del politicamente corretto, questa si chiama “appropriazione culturale” ed è considerata un sopruso. Insomma, solo un pellerossa può legittimamente travestirsi da pellerossa. Se non altro, noi italiani deteniamo l’esclusiva del travestimento da antichi romani.

    La divisa, marziale e trucida, è sempre simbolo di virilità, di machismo ed è molto probabilmente questa la connotazione preferita dai politici che vi ricorrono. L’uomo forte, il fusto italico erede del celodurismo bossiano, che ha sempre vagamente strizzato l’occhio alla mascella prominente del Puzzone e alle sue pantomime in camicia nera. Ma secondo un articolo del New York Review of Books, molto spesso dietro alle velleità machiste di tanti dittatori si nasconde invece una mal vissuta omosessualità. Nel commentare la vittoria gialloverde alle elezioni italiane, Steve Bannon ricordò Mussolini e ne elogiò l’eleganza: “Aveva anche un sorprendente gusto nell’abbigliamento, con tutte quelle sue belle uniformi”. I media americani subito si tuffarono nelle allusioni omoerotiche dell’uscita di Bannon e vi trovarono tracce di quello che James Kirchick definisce il mascolinismo gay, molto diffuso nell’estrema destra americana e non solo. A cominciare dall’anarco-fascista Jack Donovan, leader del Lupi del Vinland, un gruppo tribalista i cui membri si radunano nei boschi per spalmarsi il corpo di fango e fare sacrifici animali. O dal simpatizzante nazista Philip Johnson che quando i nazisti invasero la Polonia scrisse che “le divise verdi tedesche mettevano allegria al paesaggio”.

    Theodore Adorno nel dopoguerra sviluppò la teoria di un’affinità fra l’omosessualità maschile e il totalitarismo sostenendo che gli omosessuali anelano a una figura paterna pre-edipica che impersoni ordine e disciplina. La loro diversità li spinge ad opporsi ad ogni egualitarismo e a praticare il culto del corpo, nutrendo simpatia per qualsiasi regime che si discosti dai valori tradizionali, nella speranza di non venire più ostracizzati. È un fatto che Ernst Röhm, il co-fondatore delle SA hitleriane, le future SS, dalle vistose divise marrone, era un dichiarato omosessuale. Hitler dapprima lo tollerò poi lo fece giustiziare mettendo a fuoco i suoi archivi che repertoriavano minuziosamente tutti i membri omosessuali delle SA.

    Da ultimo va ricordato Yukio Mishima, lo scrittore giapponese che creò un proprio corpo paramilitare, il Tatenokai, la cui sigla in inglese fa curiosamente SS, per reagire a quella che lui chiamava la femminilizzazione del Giappone, divenuto da paese militarista a popolo di “compositori di mazzi floreali”. Mishima fece karakiri a 49 anni e nel suo capolavoro “Confessioni di una maschera” racconta il risveglio sessuale di un gay.

    Se ne può dunque concludere che non è tutto macho quel che è marziale e che certi travestimenti forse nascondono il desiderio di altri. Meglio dunque per un politico presentarsi nelle proprie vesti e con la propria faccia. Quando ne ha ancora una.

    Tags: divisafascismomascheraomosessualitàtravestitismo

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