Bruxelles – Tema particolare, quello del commercio internazionale. Percepito da qualcuno, di solito collocato a piani decisionali piuttosto alti, come prioritario nel mondo sempre più globalizzato in cui viviamo. Considerato non certo allo stesso modo dai cittadini, interpellati a rispondere su cosa reputino più importante per loro, in un contesto integrato o che tale vorrebbe essere, come quello europeo.
Eppure, quando si parlava di Ttip e poi anche ora, che si parla invece di Ceta, gli animi di quegli stessi cittadini si infiammano. “Ma sono accordi di partenariato completamente diversi”, sottolinea Beatrice Covassi, capo della Rappresentanza in Italia della Commissione europea, ospite all’evento “How can we govern Europe”. Il Canada, dice Covassi, è molto più simile all’Unione europea di quanto non lo siano gli Usa, per tutta una serie di similitudini su standard ambientali e alimentari. Si scaldano, gli italiani, ma il dato oggettivo è che l’accordo Ceta, dopo un anno dalla sua entrata in vigore in via provvisoria, ha portato buoni risultati: le esportazioni da Italia verso l’oltreoceano sono aumentate. Allora perché il dibattito italiano è stato così improntato alla critica dell’accordo? “Si è data la sensazione, con la secretazione delle trattative che ha caratterizzato la fase iniziale, che ci fosse qualcosa da nascondere: i cittadini si sono spaventati e ne è scaturito un dibattito ideologico”, realizza Luigi Scordamaglia, presidente uscente di Federalimentari e consigliere delegato di Filiera Italia.
L’esempio del Ceta è solo uno degli aspetti della complessità del tema, e della distanza che spesso c’è tra le decisioni prese a livello istituzionale e quello che poi accade nella vita di tutti i giorni del cittadino, quando va al supermercato a fare la spesa. “Eppure le due cose sono legate a doppio filo”. Lo dice senza giri di parole l’avvocato Francesco Sciaudone, ma il problema non è questo. Il problema nasce nella misura in cui manca un’armonizzazione a livello europeo delle regole. Quali regole?
“Sulle decisioni importanti, come quelle sull’origine delle materie prime o sull’etichettatura nutrizionale, la Commissione europea si rivela incapace di prendere posizione e preferisce delegare agli Stati membri”. Colpisce dritto Scordamaglia. Ricordando che, quando critica l’esecutivo comunitario, lo fa tenendo presente la volontà dei singoli Paesi che spesso è diversa da quella, tesa all’armonizzazione, europea. “Ma mi aspetto che la Commissione smetta di accettare compromessi al ribasso”.
Anche perché, per come stanno ora le cose, in Europa vige un “sistema disordinato”, un vero e proprio “mostro giuridico”, come lo chiama Sciaudone, in cui non si tiene conto della legislazione già vigente o non si tenta un approccio comunitario ai problemi. E così si creano situazioni come quella dell’etichettatura ‘a semaforo’, adottata dalla Gran Bretagna e che sembra voler essere introdotta anche in altri Paesi (come la Francia) per semplificare la vita ai consumatori. Non fosse altro che, in base a questa riduzione al’’osso dell’informazione in vista della semplicità di comprensione per i non addetti ai lavori, la Coca Cola ottiene un bel semaforo “verde” perché povera di lipidi, mentre Parmigiano e olio nostrano sono bocciati con un “rosso”. Qualche microgrammo di grasso di troppo, sembrerebbe.
In tutto questo, l’Europa cosa fa? C’è voglia di armonizzazione o no? A parole, sì. Ci sono incontri, tavoli di consultazione tra la Commissione Ue e i vari rappresentanti a livello nazionale. Grande clima collaborativo, “almeno finché non si tratta di passare dalle parole ai fatti”, taglia corto Scordamaglia. A quel punto, si va al compromesso al ribasso a cui abbiamo già accennato. Viene da chiedersi, allora, se davvero ha senso parlare di “progetto europeo”.
Se c’è volontà di armonizzazione, per Sciaudone, è imprescindibile che la si raggiunga con “scelte a livello macro”. “Se vogliamo avere ancora un’Europa, cosa che auspico, dobbiamo decidere come farla funzionare. A scontare i problemi del caos giuridico che è stato creato sono le imprese, i lavoratori”, chiarisce.
Ricorda poi che per la prima volta, nell’Ue, si è deciso di “disciplinare le regole dei cittadini non come soggetti politici, ma come consumatori”. E forse è proprio da lì che si può ripartire per la costruzione di un’idea di Europa, perché “si produce, si coltiva, si informa sugli alimenti perché c’è un cliente. E il cliente è un cittadino consumatore”.
Tutto sta, ovviamente, nel decidere. Vogliamo un’Europa più forte o no? Se la risposta è positiva, allora dobbiamo essere disposti a derogarle più poteri. Ricordando sempre il “branding”, spesso invece dimenticato: la qualità dell’Europa, dei suoi valori, che rappresentano un vantaggio competitivo che deve essere fatto valere. Lo standard europeo riguardo a tutela dei diritti, qualità dei prodotti, tutela ambientale non ha uguali nel mondo. “Dobbiamo smetterla di percepirlo come un limite e cominciare a presentarlo come vantaggio competitivo”, afferma la numero uno della rappresentanza italiana dell’esecutivo europeo.
In caso contrario, come dice Covassi, “si tornerà indietro, si tornerà alla negoziazione dei parlamenti nazionali”. E in questo la Brexit può rappresentare un monito: la Gran Bretagna, una volta uscita dall’Ue, dovrà rinegoziare più di 700 trattati. “È un momento particolare, in cui dobbiamo capire che cosa vogliamo. E in base a quello, andare avanti”.