Abbiamo avviato, qualche tempo fa, una riflessione sul diritto amministrativo attraverso il blog ridiam.it e ci siamo occupati di vari argomenti sia di teoria generale (le fattispecie miste pubblico-privato, la polivalenza delle norme giuridiche) sia di carattere più operativo, come la complessità amministrativa sulla quale abbiamo tenuto nei giorni scorsi un seminario all’Università di Firenze.
Questo convegno organizzato dalla Università di Trento si collega a questa seria di iniziative.
E’ stato subito chiaro che il tema dell’Unione Europea meritasse, anche per gli amministrativisti, una attenzione particolare che infatti non è mancata negli ultimi tempi. L’impostazione prevalente fin qui usata, forse per mancanza di famigliarità con i nuovi istituti o per rispetto verso la nuova, condivisa, Istituzione, è stata però quella descrittiva, di esposizione della normativa e della giurisprudenza europea, senza quell’approccio critico che caratterizza la produzione scientifica quando si occupa delle questioni interne all’ordinamento nazionale.
Gli oltre 40 studiosi, non solo italiani, che in ridiam.it si sono occupati dell’ordinamento europeo hanno cercato di superare questo approccio nei lavori preparatori e nel documento finale “L’Unione Europea possibile e necessaria: l’Europa a cerchi concentrici”, scritto in occasione dell’anniversario del Trattato di Roma, e nel successivo incontro su Immigrazione, Europa, Africa, organizzato in collaborazione con la LUMSA e, come questo, con Eunews.
Gli Autori del documento hanno mosso anzitutto dalla convinzione che l’Unione Europea sia indiscutibimente necessaria. E’ bene ricordarne le ragioni in un momento storico in cui questo dato viene messo in dubbio. Quando i Padri fondatori ne promossero l’istituzione, proprio durante la seconda guerra mondiale mentre i popoli europei si distruggevano a vicenda, l’obiettivo principale era quello di evitare per il futuro la possibilità di altri conflitti armati fra gli Stati europei. [ Lo si poteva raggiungere solo ispirandosi a forti idealità e a lungimiranza perchè richiedeva una grande motivazione culturale e etica, la capacità di capire le ragioni degli altri, di accettare il confronto come stimolo alla crescita comune.]
L’obiettivo è stato raggiunto attraverso la formazione di un mercato comune che ha favorito lo sviluppo delle economie nazionali offrendo loro un contesto più ampio per espandersi senza ricorrere alle armi.I successivi Trattati, in particolare quello di Lisbona, hanno introdotto nell’ordinamento europeo finalità di carattere sociale, per altro finora poco concretizzate, e una serie di diritti la cui soddisfazione rientra frai compiti dell’Unione, sia pure per il tramite degli Stati. Si è dato vita alla moneta unica fra larga parte dei Paesi membri, che li ha protetti dalle fluttuazioni finanziarie che si sono verificate. Si è incominciata, con il Piano Juncker, una politica europea a sostegno degli investimenti e delle infrastrutture, anche se attraverso Trattati paralleli fra una parte degli Stati membri per bypassare il vincolo della unanimità delle decisioni.
Una importante evoluzione delle ragioni sulle quali si fonda la necessità dell’Unione è poi venuta da un profondo cambiamento che si è verificato negli ultimi decenni. Lo sviluppo tecnologico, attraverso l’informatica e la finanziarizzazione dell’economia, ha cambiato le stesse nozioni di tempo e di spazio e ha determinato un assetto economico nuovo nel quale i singoli Stati non sono in grado di affrontare non solo i problemi della concorrenza mondiale ma anche quelli della pace, dei cambiamenti climatici, degli squilibri crescenti che stanno alla base del moltiplicarsi dei flussi migratori. Tutti gli Stati nazionali, e in particolare quelli di piccole dimensioni, hanno perso il requisito di autosufficienza che ne costituisce un requisito essenziale fin dalla definizione di Stato che ne diede Aristotele. La loro dimensione non è più adeguata alla funzione primaria di garantire una buona vita alle popolazioni.
Nello stesso tempo gli Stati, pur così indeboliti, restano le uniche organizzazioni destinatarie della domanda sociale alla quale devono dare risposta. Questa considerazione mostra tutti i limiti della dialettica così in auge fra sovranismo e globalismo. Si tratta di una contrapposizione sbagliata perché fondata su due alternative entrambe impraticabili: il sovranismo teorizza in modo nostalgico un assetto che è ormai divenuto impossibile o comunque del tutto non conveniente; il globalismo non tiene conto della realtà istituzionale degli Stati e della mancanza di altri organismi in grado di garantire i bisogni essenziali e di avere ordinamenti fondati sulla democrazia.
La nuova finalità dell’Unione Europea è quella di fare in modo che gli Stati che la compongono possano ancora, attraverso di essa, aver voce nel contesto mondiale e tutelare le proprie popolazioni nei bisogni che da soli non riuscirebbero a soddisfare.
Ciò posto, l’assetto delle istituzioni europee attualmente vigente mostra delle evidenti carenze strutturali. L’ordinamento europeo risente in modo marcato della sua finalità originaria di dirimere i conflitti fra gli Stati membri ed è restato quindi chiuso, rivolto essenzialmente verso se stesso. Le sue funzioni entrano in contraddizione con l’esigenza degli Stati di rispondere alla domanda sociale. L’Unione Europea viene avvertita dalle popolazioni come un potere negativo rispetto alle loro attese perché non esercita direttamente nessuna funzione per soddisfarle e a volte impedisce agli Stati di farlo. Nei decenni del liberismo le istituzioni europee, compresa la Corte di giustizia, hanno spesso confuso l’obiettivo del mercato comune con quelle del mercato come valore in sé, disarmando ulteriormente gli Stati, impossibilitati ad aiutare le imprese nazionali per evitare squilibri nella concorrenza fra i sistemi degli Stati membri. L’invadenza della regolamentazione normativa e l’espansione nelle funzioni operata dalla Corte di giustizia sono state per certi profili più unificanti di quelle che si hanno negli ordinamenti federali.
Ma il carattere strutturale delle carenze deriva da un’altra circostanza che abbiamo chiarito nel documento, sulla quale non si è ancora riflettuto abbastanza.
Si è creato un disallineamento tra il potere e le responsabilità: il primo è suddiviso fra Unione Europea e Stati, mentre solo su questi grava la responsabilità di rispondere alla domanda sociale. Si è determinato inoltre un vuoto di potere in quanto alla cessione di sovranità da parte degli Stati non corrisponde l’esercizio di una responsabilità da parte dell’Europa (si ostacola ad esempio, la formazione di imprese nazionali di grandi dimensioni ma non se ne formano altre di livello europeo).
La somma dei poteri dei Paesi membri e dell’Unione è inferiore a quella che hanno gli Stati che non ne fanno parte. La creazione dell’euro in assenza dei presupposti richiesti dalla moneta unica (bilancio,politica fiscale, economica e finanziaria comuni o almeno coordinati) ha rappresentato una importante spinta verso l’unificazione ma, non essendosi questa realizzata, ha accentuato lo squilibrio fra poteri e responsabilità.
L’Unione Europea appare come una automobile alla quale manca una ruota. Non si tratta di un meccanismo realizzato in parte che richiede solo di essere ulteriormente perfezionato: c’è uno squilibrio fra alcune parti ben funzionanti e altre che mancano.
Se, nel prospettare riforme dell’attuale ordinamento europeo non si tiene conto della necessità di superare questo disallineamento tra potere e responsabilità, non si rimuovono le cause delle attuali disfunzioni. Così quando si propone di conferire più poteri al Parlamento Europeo ma ci si limita a riferirsi alla distribuzione degli attuali poteri fra gli organi dell’Unione che non hanno quel rapporto con le popolazioni che è necessario per dar senso a un sistema democratico. E’ così, ancora, quando si propone un Ministro del tesoro unico senza unificare però i “Tesori” nelle loro voci attive e passive.
Non bisogna nascondersi che il problema della riforma della governance economica e finanziaria dell’Unione del quale si occupa questo Convegno è di difficile soluzione perchè registra interessi che, almeno nel breve periodo, sono fra loro confliggenti e hanno tutti un fondamento razionale: la responsabilità comune del complessivo equilibrio economico finanziario comporta per tutti gli Stati l’assunzione di responsabilità e rischi derivanti da politiche espansive realizzate da alcuni Stati senza disporre dei mezzi necessari; ma impedire politiche espansive nei Paesi in crisi cercando di perseguire l’equilibrio di bilancio solo attraverso riduzioni di spese è come fare una cura solo a base di antibiotici, cancellando, oltre che il male, le energie vitali dell’organismo. Le crisi economiche, come ha insegnato quella del 1929, si superano solo cin lo sviluppo. Altrimenti l’indebolimento di un Paese lo ingabbia in una spirale di progressivo degrado, del quale, tra l’altro ricevono vantaggi gli altri sistemi concorrenti all’interno dell’Unione.
Questo sistema funziona solo se non si verificano crisi, che sono invece ciclicamente inevitabili, o se le crisi si verificano per tutti i Paese dell’Unione con la stessa tempistica, perché in tal caso l’interesse comune consente, come ha consentito, tutte le misure anticicliche e tutte le deroghe ai principi ordinari.
E’ allora difficile pensare a una soluzione che riguardi singoli profili della discussione senza inquadrarli in una prospettiva più ampia e di lungo periodo. Ancora di più lo è in un assetto istituzionale che richiede l’unanimità per le decisioni più importanti e in un contesto nel quale ogni Paese vorrebbe avere dall’Europa solo i vantaggi senza gli svantaggi corrispondenti.
Anche la questione dell’immigrazione, che oggi appare il problema più importante che condiziona la sopravvivenza dell’Unione, può essere risolta solo pensando alle cause che la generano e quindi con un approccio lungimirante che implica un nuovo e massiccio investimento europeo per lo sviluppo dell’Africa. E tuttavia non appare molto difficile da risolvere, sempre che ci sia una sufficiente volontà politica, perché gli interessi dei vari Paesi europei, se si affronta il problema nelle sue cause profonde, sono largamente omogenei fra loro. La linea da seguire, se lo si vuole, è abbastanza chiara.
Molto meno lo è nelle questioni economiche e finanziarie, dove si registrano una molteplicità di proposte, a volte difficili da spiegare all’opinione pubblica per i loro contenuti fortemente tecnici. Non sono proponibili, per i Paesi in crisi, misure di rineallinamento forzato, ma non si può chiedere ai Paesi che hanno mantenuto un equilibrio di bilancio di farsi carico delle spese eccessive degli altri.
La soluzione probabilmente si può trovare solo rafforzando in parallelo i poteri e le responsabilità dell’Unione, unificando progressivamente il bilancio e il sistema bancario in modo da superare il rapporto concorrenziale fra i Paese membri, e consentendo ai Paesi in deficit di onorare in tempi più lunghi i loro debiti in modo di poter destinare parte delle risorse alle infrastrutture e allo stimolo allo sviluppo. Se si condivide la diagnosi prima indicata, non si possono non apprezzare le lesi avanzate da Mario Draghi quando afferma che la riduzione e la condivisione dei rischi devono essere affrontati in maniera complementare.
Questo convegno, che si tiene una settimana prima del Consiglio Europeo, offre un contributo di riflessioni e di idee in questa direzione proprio nel sottolineare la profonda interconnessione fra il tema della governance pubblica e quello finanziario. In questo contesto ben si colloca la presentazione dell’ultima edizione del Commentario di Francesco Capriglione al T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia con la quale il convegno si conclude.