Rimettere in discussione l’adesione italiana alla moneta unica è diventato un tema carico di retorica politica, polarizzando la discussione alla extrema ratio: o dentro il sistema, o fuori di esso. La feconda interrelazione tra queste due posizioni getta nell’ombra del dibattito odierno alcune alternative plausibili, o almeno che hanno mostrato la loro validità nel corso della storia. La rigidità imposta dall’euro può essere paragonata, ai massimi sistemi e con le dovute cautele, a quella imposta dal sistema monetario ottocentesco (tecnicamente chiamato gold standard) che prevedeva la circolazione di monete d’oro e di carta moneta interamente interscambiabili e commutabili tra loro. Questo sistema, che si reggeva per buona parte sulla piazza di Londra e sul ruolo giocato dalla Banca d’Inghilterra, garantiva una stabilità perfetta per il commercio internazionale. Al di là dei tecnicismi, la presenza di una moneta forte ed ‘intoccabile’ trasmetteva sugli stati che vi aderivano i costi della stabilità. Se un paese si trovava in difficoltà economiche non riuscendo più a mantenere la parità, sarebbe stato suo compito agire all’interno dell’humus economico domestico per ritrovare un equilibrio con l’oro. In sostanza, erano gli stati aderenti che si piegavano alla stabilità monetaria, e non viceversa, un po’ come oggi funziona con la valuta europea. Infatti, l’impossibilità di agire sulla politica monetaria porta gli stati federati nell’euro ad agire attraverso una politica restrittiva interna: vista l’impraticabilità di una svalutazione della moneta, per dare respiro all’economia in una fase recessiva si interviene con misure di riduzione sia dei costi di produzione, che vanno a ledere, ad esempio, il livello dei salari, sia della spesa pubblica, con conseguente contrazione dei livelli dei servizi offerti dallo Stato.
Esisteva però un sistema ibrido che coniugava gli interessi dei paladini della stabilità, in genere i creditori, ed i paladini dell’inflazione, in genere i debitori, sia pubblici che privati: questo era il caso del sistema bimetallico. Per quanto il monometallismo, cioè l’adesione ad un sistema monetario legato all’oro o all’argento, sia più agevole da coordinare, il sistema bimetallico è assai più flessibile. Le monete in oro venivano usate per i pagamenti più consistenti mentre quelle in argento venivano impiegate per spese più modeste. Questo meccanismo conferiva allo Stato ottocentesco una base monetaria assai più ampia, evitando di strozzare l’economia domestica in momenti di recessione, mantenendo il sistema sempre sufficientemente lubrificato dal capitale, abbozzando anche delle politiche anticicliche nei momenti di crisi. Chiaramente bisognava usare con moderazione questo strumento, evitando il sorgere di corride speculative od operazioni di arbitraggio da parte dei privati.
In sostanza, un sistema bimetallico ben gestito poteva concedere ai Paesi aderenti un cuscino contro la durezza di una crisi deflattiva scatenata dalla moneta forte in momenti di crisi economica.
Il principio del sistema bimetallico che a decorrere dal 1870 ha iniziato ad essere superato per il progressivo abbassamento del prezzo dell’argento e dell’introduzione della carta moneta fiduciaria su vasta scala, era e resta valido: allentare la rigidità del sistema aureo senza rinunciare però ai suoi benefici.
Pertanto, parlare oggi dell’introduzione di una doppia moneta non sarebbe un anatema, specialmente se questa fosse in grado di tutelare gli interessi di tutte le parti in causa. Affiancare all’euro una nuova moneta domestica, più debole e flessibile, potrebbe permettere al Paese di respirare nuovamente allontanando la retorica populista dal campo economico e lasciando intatta la possibilità di mantenere i vantaggi di un sistema monetario stabile. Del resto, anche lo Sme, il sistema monetario antesignano dell’euro e in vigore prima di questo fin dal 1979, prevedeva norme di comportamento diverse per due gruppi di Paesi, quelli più stabili e quelli meno stabili, e ha funzionato ragionevolmente per un ventennio.
Giampaolo Conte ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia presso l’Università Roma Tre, dove è attualmente assegnista di ricerca in Storia Economica (cofinanziato con l’Istituto di Studi Politici “S.Pio V”). Ha studiato e svolto attività di ricerca presso l’Università Saint-Joseph di Beirut, L’Università Al-Quds di Gerusalemme, l’Università di Montreal e l’Università del Bosforo di Istanbul. È stato Visiting Scholar presso la Facoltà di Storia dell’Università di Cambridge (UK).