È stata definita la più lunga “crisi di governo” della storia repubblicana, ma quella cui abbiamo assistito in questi tre mesi altro non è che la cartina di tornasole di quanto sia tutt’altro che un gioco per dilettanti fare un governo.
L’Italia è un paese anomalo, è bene ricordarlo. La gran parte della sua classe dirigente “è fuori” dalle logiche della politica partitica. Abbiamo più tecnici eccellenti che non parlamentari almeno adeguati al proprio ruolo.
Questo fa sì che ormai sempre più spesso si fatica a trovare nell’arco parlamentare non tanto un Mattei, un Di Vittorio, ma anche un Almirante, un Andreaotti, un Berlinguer… quanto qualcuno che abbia un curriculum accettabile e che conosca l’uso del congiuntivo.
Da qui la necessità per gli stessi Salvini e Di Maio di trovare qualcuno di terzo al di fuori dei due rami del parlamento, che pure contano oltre mille eletti e ci costano oltre tre miliardi di euro l’anno.
Quella cui abbiamo assistito è stata la saga dei dilettanti allo sbaraglio, che ha avuto come diretta conseguenza mettere un intero paese allo sbaraglio, nell’incertezza economica, politica e finanziaria. E questa condizione è senza appello e senza scusanti né attenuanti.
Se esistesse una responsabilità lievemente più seria della misconosciuta “resposabilità politica” costoro ne uscirebbero responsabili, se non altro della loro assoluta irresponsabilità (prima che inadeguatezza e incapacità).
Si va dalla totale ignoranza dei principi costituzionali, alla a-cultura politica, alla incapacità di mediazione, alla totale e costante anteposizione degli interessi non tanto personali quanto della propria immagine e comunicazione personale, rispetto anche alla formazione di un proprio governo.
Perché questi tre mesi sono sostanzialmente passati tra dictat, scadenze perentorie, ultimatum, contrattini illegali, dirette facebook, tutti tesi all’autocelebrazione della propria presunta immagine personale leaderistica.
Non c’è stato un solo passo politico o atto vagamente sostanziale.
Arrivando al paradosso di nominare come premier un signor nessuno – utile solo a non oscurare Di Maio e Salvini e dare una parvenza di tecnicità e competenza ad un parterre che ne aveva meno dell’odore – e insistere come “bambini capricciosi” sull’unico nome che il Presidente della Repubblica già dieci giorni fa aveva detto non gradire.
Perché va ricordato – per chi ignora anche come si annoda una cravatta l’impresa sarà titanica – che i ministri li nomina il Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio.
Ebbene, chi vuol fare sul serio un governo, chi antepone tale scopo a se stesso, un passo indietro su un nome per altro non politico poteva e doveva farlo. In un paese che se ne piove di economisti spesso critici anche a oltranza (o spesso solo per scopi televisivi).
Quella che appare più evidente è invece la vera strategia di questi signori. Continuare in una campagna elettorale permanente, sempre più massimalista ed estremista. E per farla occorrono le mani libere da qualsivoglia responsabilità vera di governo vero.
Perché il governare logora gli slogan, richiede responsabilità, declinazione differente della politica e dei tempi, richiede lavoro, mediazione… tutte caratteristiche molto lontane da Di Maio e Salvini.
Ed allora – come in una novella repubblica di Weimar – meglio dire sempre e solo no e procedere a passi forzati verso “nuove” e sempre altre elezioni… nella speranza di avere una “maggioranza assoluta” e poter fare quello che si vuole da soli.
Un po’ come quei bambini asociali incapaci di stare con gli altri e che ripetono sempre e solo che la colpa non è loro, che sono gli altri cattivi, che non li accettano, o che loro sono più bravi e vogliono stare da soli.
In genere la tipica infanzia di dittatori e serial killer, tutti piccoli geni incompresi, ma che mai si sono assunti alcuna vera responsabilità in vita loro, avendo sempre e solo a cuore la propria immagine, e come unica preoccupazione che nulla la offuschi.
Ma andiamo con ordine e spieghiamo la crisi di governo a chi era assente.
Salvini e Di Maio sono i due vincitori mediatici delle elezioni del 4 marzo.
Mediatici perchè seppure contendendosi lo stesso elettorato – populista, euroscettico, antisistema – nessuno dei due vince sul serio, e perchè non provengono da un’alleanza elettorale.
Il vero scopo di Di Maio era fare il premier. Il vero scopo di Salvini fare un’Opa totalitaria sul centrodestra.
Se partiamo da questi due scopi, tutti personali e in cui il bene del paese non c’entra evidentemente nulla, allora possiamo comprendere “come sono andate davvero le cose” in questi tre mesi.
Dai commenti del giorno dopo alle consultazioni alla trattativa per il “contratto di governo” l’unico scopo evidente era quello di accreditarsi e rivendicare una leadership ed una vittoria. Rivendicare temi come se si fosse ancora in campagna elettorale, gestire i dictat a livello mediatico.
Lo abbiamo visto con Salvini, la cui priorità era l’alleanza elettorale; lo abbiamo visto con Di Maio, pronto a fare il governo con chiunque (da Pd alla Lega senza distinzioni di sorta) purché fosse lui a primeggiare.
Salvini non voleva formare questo governo. Avversari e alleati (Forza Italia) sono debolissimi, e sa che andando ad elezioni farebbe il pieno (non escludo rosicchiando anche qualcosa agli stessi 5stelle).
Politicamente si è dimostrato bravissimo, il migliore nell’usare i mezzi di comunicazione.
Di Maio probabilmente ha perso l’occasione della vita. Forse era quello che più di tutti voleva davvero fare un governo. Ma al prossimo giro per come si sono messe le cose davvero potrebbe toccare a Di Battista, l’unico in questo scenario che può competere coi toni di Salvini.
Salvini e Di Maio accusano il Presidente della Repubblica di aver impedito la formazione del governo del cambiamento.
Sarebbe bastato fare un altro nome, altre volte in passato è accaduto che presidenti non accettassero un nome, e non per questo si è mai arrivati a parlare di messa in stato d’accusa del Presidente.
Il punto chiaramente non è il prof. Savona.
Mattarella avrebbe potuto accettare quel nome, ma la questione è l’aut aut che Salvini e Di Maio hanno posto “o questo o niente”, portando così la questione su un altro livello, quello dello scontro istituzionale. Un ricatto in altre parole: o accetti o sarai indicato come il responsabile della mancata formazione del governo.
A che scopo?
Semplicemente perché senza una maggioranza chiaramente monocolore – che probabilmente così resterà anche in caso di elezioni dal momento che con ogni probabilità non ci sarà modo di cambiare legge elettorale – fa comodo continuare a ripetere gli slogan di sempre.
Nei prossimi mesi ci racconteranno di come tutti siano contro di loro, che sono gli unici possibili salvatori del Paese, che l’Europa vuole decidere al posto degli italiani. Che loro sono i soli ad essersi opposti ai ricatti della troika, dei poteri forti, delle banche, alle decisioni della Merkel, e ad ogni tipo di retroscenismo.
Il tutto sulle spalle del Paese. Un paese che merita di più e di meglio, ma che deve prendere atto che il debito pubblico è suo, non è un’usura dell’Europa. Che il costo della vita alto è tutto nostro, e non è colpa dell’Euro. Che il nostro sistema ingessato, chiuso in circoletti che impediscono nuove occupazioni e la crescita dei giovani non ha nulla a che vedere con Bruxelles. Che l’immigrazione non la gestisci coi blocchi navali. Ma tutti questi sono temi tropo complessi per chi ha scelto la via facile di dare – da sempre – la colpa ad un “nemico lontano”.
Per chi non ha memoria io ricordo una Lega per cui la colpa dei mali del nord erano i meridionali, poi gli albanesi, poi i cinesi… adesso di Bruxelles.
L’Italia – con molta chiarezza – ha bisogno di più Europa, per scongelarsi dal proprio immobilismo e dalle proprie instabilità, ma soprattutto di una classe dirigente più seria e che meno alla ricerca del voto facile lucrando sulle paure e alimentando i fantasmi di complottismi improbabili.
Ma forse una classe dirigente più seria – che semmai conosca anche il congiuntivo – non ci rappresenterebbe sul serio.