Da alcuni mesi, in Spagna la giustizia occupa la scena mediatica. È successo con la vicenda catalana, in cui il ricorso ai tribunali e alla legalità ha sostituito la politica fin dal principio. Poi si è compreso che si trattava solo della punta dell’iceberg e quello che c’era sotto è venuto a galla un po’ alla volta. Si è visto allora che la giustizia spagnola presenta vari problemi.
Sul piano della legislazione, come dimostra il recente caso della sentenza nei confronti degli uomini della ‘Manada’, autori di violenza sessuale, ma puniti per il reato di abuso, differenza prevista nel codice penale. O nella legislazione anti-terrorista, che ha così tanto ampliato il campo di applicazione per cui ora “tutto è Eta”: una rissa da bar che coinvolge due poliziotti della Guardia Civil, la canzone di un rapper, l’interruzione del transito su un’autostrada. Sul terreno dell’ordinamento, con istituti come l’Audiencia Nacional erede del tribunale franchista e quindi inesistente altrove. Su quello infine della debole separazione fra i poteri dello Stato, con una tendenza alla ‘giudiziarizzazione’ della politica e con il rischio di farne il mezzo di competizione tra i partiti della destra spagnola.
A farne le spese è la libertà d’espressione
A farne le spese è la libertà di espressione che la sezione spagnola di Amnesty International segnala essersi ridotta. Perciò la censura si allarga, rasentando il ridicolo nel sequestro di fischietti e magliette di colore giallo nella finale di calcio della Copa del Rey. A farne le spese sono le persone che rischiano il carcere, stanno per finirci o ci sono da tempo, imputate di delitti che non hanno commesso.
E’ il caso di rappers, utenti delle reti sociali, comici, militanti di movimenti. E’ il caso dei nove prigionieri politici catalani in regime di carcerazione preventiva: Oriol Junqueras, Dolors Bassa, Carme Forcadell, Quim Forn, Raül Romeva, Josep Rull, Jordi Turull, e i Jordis, Jordi Sánchez e Jordi Cuixart, leader del movimento indipendentista, in cella da oltre sei mesi per avere convocato una manifestazione sotto il dipartimento di Economia.
Contro l’indipendentismo, il giudice istruttore Llarena del Tribunal Supremo ha costruito un vero e proprio teorema accusatorio, teso a dimostrare l’uso della violenza nei fatti occorsi nell’autunno 2017, per cui 13 dei 25 imputati nella macro-causa lo sono per ribellione, delitto punito con 25-30 di carcere. La violenza, pur se non esercitata direttamente dagli accusati, sarebbe quella da questi indotta nel comportamento della polizia spagnola il giorno del referendum per farne rispettare il divieto, o quella che si sarebbe potuta determinare per la presenza intimidatoria di un grande assembramento di persone il 20 settembre. Un’imputazione per un delitto inesistente, a detta di diversi giuristi stranieri e di alcuni spagnoli; contestata da Amnesty International che critica il regime di carcerazione preventivo in cui si trovano i Jordis. Per la semplice ragione che è mancante del suo presupposto, la violenza appunto, poiché il movimento indipendentista catalano è sempre stato pacifico e di massa.
La processione dei capi d’accusa
Tanto che la giustizia spagnola starebbe meditando un’eventuale riconsiderazione di questa imputazione attribuita ad alcuni degli esiliati, fino a sostituirla con l’accusa di sedizione, che prevede pene inferiori. Questo, in attesa di riuscire a dimostrare il delitto di malversazione di fondi pubblici, di cui sono accusati tutti i componenti dell’ex-governo per il referendum. Considerando che la Generalitat aveva il bilancio controllato dal governo spagnolo fin dal 2015 e commissariato negli ultimi giorni del settembre scorso. Contraddizione che ha aperto un inedito conflitto tra il ministro del Tesoro Montoro, che deve mostrarsi commissario efficiente, e il giudice Llarena, che teme di vedere compromesso l’altro aspetto del suo impianto processuale.
Per entrambi i delitti la giustizia spagnola ha infatti chiesto l’estradizione degli imputati esiliati: di Carles Puigdemont, prima a Bruxelles e ora in libertà condizionata in Germania, di Clara Ponsatí in libertà condizionata nel Regno Unito, di Toni Comín in libertà condizionata a Bruxelles e di Marta Rovira rifugiatasi in Svizzera, imputati di ribellione; di Lluís Puig e Meritxell Serret a Bruxelles accusati di malversazione; mentre per Anna Gabriel non c’è richiesta di estradizione dalla Svizzera, perché imputata di disobbedienza.
Il movimento indipendentista si è sempre appellato a una mediazione europea senza successo, perché la Commissione ha continuato a sostenere che si tratta di una questione interna allo Stato spagnolo. La strategia di Puigdemont è stata quella d’internazionalizzare il conflitto, per evidenziare il carattere politico della persecuzione giudiziaria. Il suo arresto in Germania e quello successivo di altri cinque dirigenti dell’indipendentismo hanno suscitato più di una perplessità nelle opinioni pubbliche europee e sui media internazionali. Il tribunale tedesco non ha riconosciuto gli estremi di violenza per l’estradizione di Puigdemont; la giustizia britannica si è presa del tempo per esaminare le carte relative all’imputata Ponsatí; in Belgio, la giustizia sta istruendo la richiesta relativa agli altri imputati; la Svizzera ha già detto che non concederà estradizioni per ragioni politiche. E il Comitato dei Diritti Umani dell’Onu, sollecitato da Jordi Sánchez perché era stato impedito a presentarsi come candidato a president della Generalitat, raccomanda che ne siano garantiti i diritti politici. Una vicenda tutta spagnola su cui peserà il giudizio di almeno altri quattro paesi europei.
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