La recente evoluzione della crisi in Siria mostra implacabilmente come l’impiego della dimensione informativa a scopo conflittuale abbia assunto un ruolo sempre più determinante nel corso degli ultimi anni. La narrazione mediatica che anima in questi giorni il dibattito sul presunto impiego di armi chimiche da parte del governo di Damasco costituisce un caso esemplare di ‘guerra cognitiva’. In effetti, rappresenta la presa di coscienza massima di come la padronanza assoluta della produzione d’informazioni possa – forse più dell’uso (e dell’abuso) della forza – assicurare un persistente dominio nella politica internazionale, influenzandone il contesto geopolitico e geoeconomico.
Propaganda e disinformazione: le nuove armi
Nelle sue ultime opere incentrate sulla moderna intelligence, Giuseppe Gagliano ci spiega come, tra le varie tecniche di questa ‘guerra cognitiva’, le due più appariscenti siano la propaganda e la disinformazione: la prima propina un’unica verità volta a esercitare una funzione psicologica sull’opinione pubblica; la seconda deforma la realtà allo scopo di fornire all’avversario (o all’arbitro) informazioni parziali che lo inducano a prendere decisioni sbagliate.
Affinché l’operazione di disinformazione risulti credibile, i dati artefatti debbono possedere i caratteri e l’apparenza di quelli veri. Dunque il processo di falsificazione deve giovarsi di conoscenze già acquisite dai destinatari dell’operazione, ovvero dei suoi punti di forza e di debolezza. Ad esempio, il ricorso in passato a determinate armi da parte di Hafiz al-Assad per sedare le rivolte interne può indurre a ritenere credibile l’emulazione da parte del figlio Bashar.
Gli autori della disinformazione sono i gruppi con elevato potere di comunicazione sociale, come le Ong ben finanziate. Ad esempio i Caschi Bianchi (White Helmets) producono da anni materiale mediatico con avanzate tecniche di ripresa cinematografica per poi fornirlo alle principali agenzie internazionali di informazione.
Nel caso specifico dell’attacco informativo di inizio aprile relativo alla crisi siriana, il pubblico preso di mira è stato quello (arbitro legittimante) delle democrazie occidentali, allo scopo di offuscarne empaticamente la capacità di giudizio e di accettare istintivamente la risposta armata contro il governo siriano. Naturalmente senza porsi domande sulla legalità di tale intervento, sulla veridicità delle prove fornite e sulla pregnanza degli obiettivi strategici. Lo scopo è quello di generare un casus belli immediatamente invocabile, non quello di consegnare alla Storia un’infallibile ricostruzione degli eventi. Non importa se la verità possa successivamente venire a galla: importa solo che avvenga ormai a fatto compiuto, quando ormai nessuno ci baderà più. La tempistica è tutto nella ‘guerra cognitiva’.
Per tale ragione, come sottolinea Gagliano, gli analisti angloamericani da un paio di decenni rimarcano l’importanza del controllo istantaneo delle sorgenti elettroniche che sottendono le decisioni politiche, economiche e militari. Ma la stessa fluidità del mondo digitale ne rende utopico il controllo assoluto. Il gap tra la velocità con cui circolano le informazioni e la lentezza del sistema di raccolta e analisi dei dati è incolmabile. Le ‘false prove’ sull’uso di armi chimiche da parte di Assad sono tutto sommato smontabili in breve tempo, ma non abbastanza da scongiurare l’intervento degli attori internazionali che hanno premeditato la ‘rappresaglia’.
Le tecniche di sovversione nella ‘guerra cognitiva’
Le tecniche di sovversione codificate da Charles Prats, e incentrate sull’indignazione pubblica, assomigliano molto alle tecniche di guerriglia a cui abbiamo assistito negli ultimi anni in Siria:
1. instillare dubbio sui valori come sugli individui (Assad descritto come “macellaio” o “animale”), inculcando il timore dell’avversario e ridicolizzandolo per isolarlo e distruggerlo;
2. rafforzare le contestazioni che screditano l’autorità;
3. neutralizzare i gruppi che possono venire in soccorso dell’ordine stabilito, agendo sull’opinione pubblica.
L’azione sovversiva gioca sullo scontro manicheistico di valori: positivi contro negativi; Buoni (democrazie occidentali) contro Cattivi (il ‘regime’ di Assad e suoi alleati).
La sovversione tende a presentare la violenza come giusta, in quanto legittima difesa (“ribelli moderati”), e aggrava le tensioni per distruggere il sistema. Secondo Prats, l’ideale è quello di far avvenire la disintegrazione per mano degli stessi difensori dell’ordine costituzionale. La sovversione richiede il controllo delle masse, puntando sull’atteggiamento gregario dell’individuo medio, il quale pensa per immagini (e stereotipi) ed è facilmente suggestionabile.
Vittime della suggestione cittadini comuni, ma anche classe dirigente
Ciò che lascia l’amaro in bocca agli analisti è il fatto che ad essere suggestionabile non è solo la cittadinanza, ma talvolta anche la classe politica. Nel caso italiano, è emblematico come – in piena fase di costituzione di un nuovo governo – le forze partitiche si siano disciplinatamente accodate alla narrazione mainstream maggiormente digeribile alle cancellerie occidentali, anziché avviare una seria discussione sugli interessi nazionali italiani in rapporto alla questione siriana.
Si è preferito dare per scontate le informazioni prodotte in quantità maggiore nella ‘guerra cognitiva’ in atto, anziché verificarne la veridicità, condendo il tutto con un atteggiamento forzatamente atlantista e ripetendo come un mantra la parola “responsabilità” (quella di non voler evedere?). In un momento di vulnerabilità istituzionale, le controindicazioni della ‘guerra cognitiva’ si sono insinuate negli affari interni italiani e potrebbero persino concorrere agli assetti politici della nuova legislatura.
Apprezzabile è la posizione di analisti del calibro del generale Vincenzo Camporini, che più prudentemente ammettono la presenza di coni d’ombra sugli eventi della crisi e l’ambiguità di alcuni alleati dell’Italia.
L’apogeo della mistificazione è stato probabilmente toccato dal governo francese: in un documento ufficiale del 14 aprile, contro ogni evidenza razionale, riporta testualmente che “la spontanea circolazione di queste immagini su tutti i social networks conferma che non sono videomontaggi o immagini riciclate. Da ultimo, alcune delle entità che hanno pubblicato queste informazioni sono generalmente considerate affidabili”. La superficialità e la noncuranza delle motivazioni addotte dall’esecutivo di Parigi confermano in modo lampante la volubilità dell’opinione pubblica, che non richiede spiegazioni razionali, bensì risposte empatiche.
Interessi energetici e sfide geoeconomiche nel nuovo contesto globale
Qualora il vero scopo occidentale della guerra siriana fosse l’imposizione del gasdotto Qatar-Turchia da parte di alcune potenze occidentali (non tutte!), anziché l’implementazione della pipeline Iran-Iraq-Siria sostenuta dalla Russia, la classe dirigente italiana starebbe dimostrando di essere completamente inadeguata alle sfide geoeconomiche nel nuovo contesto globale.
Il tracciato del gasdotto dovrebbe quantomeno mettere in allarmo il governo italiano. Il gas prodotto da Doha, i cui legami con Roma sono strettissimi, transiterebbe attraverso la regione più instabile del mondo per giungere poi nella penisola anatolica, concorrente diretta dell’Italia nel proporsi come hub del gas europeo. Appoggiare anche solo ideologicamente una guerra dai costi umani e politici elevatissimi per ritrovarsi poi a pagare laute royalties ad Ankara – la quale godrebbe di un’ulteriore leva di ricatto verso l’Europa – è quantomeno sintomo di scarsa lungimiranza.
Se è vero che la crisi russo-ucraina e l’affossamento pretestuoso di South Stream costituiscono un impedimento all’ottimale transito del gas iraniano attraverso il Caucaso, è altresì vero che l’eventuale realizzazione del gasdotto Iran-Iraq-Siria permetterebbe all’Italia di allacciarvisi direttamente attraverso tubature sottomarine nel Mediterraneo, bypassando l’inaffidabile alleato anatolico.
Probabilmente tutto ciò non è mai stato ben illustrato ai politici nostrani, i quali amano riempirsi la bocca di concetti astratti come ‘diritti umani’, sostenendo l’impiego di armi convenzionali ‘smart’ (come se uccidessero meno di quelle chimiche) per distruggere supposti laboratori per la produzione di armi chimiche. Senza peraltro che si rilevi nell’aria alcuna contaminazione a seguito del loro smantellamento.
Ecco perché forse dovremmo assimilare dai nostri cugini francesi il concetto di ‘patriottismo economico’ che, grazie alla riflessione di Christian Harbuot e dell’École de guerre économique (Ege), definisce l’ambito di sviluppo della nazione di fronte alle minacce (e alle opportunità) insite nella globalizzazione degli scambi nel nuovo sistema multipolare. Se non altro per salvaguardare gli interessi e l’influenza geopolitica delle grandi imprese strategiche del nostro Paese, come Eni e Snam, da cui dipende parte del benessere delle prossime generazioni.
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