Di Marco Zupi (Direttore scientifico Centro studi di politica internazionale, Cespi)
Il percorso che ha portato dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 al protocollo di Kyoto (1997) e alla sua entrata in vigore (2005), con l’obiettivo di contrastare l’emissione di gas a effetto serra, ha dovuto fare i conti con la necessità di un adeguamento – in termini d’impegni ed obiettivi da raggiungere, parti da coinvolgere e tempistica di riferimento.
Fallito il tentativo di approdare a un nuovo accordo vincolante in occasione della Conferenza delle Parti di Copenaghen (2009), il primo patto universale e giuridicamente vincolante per tutti sul clima è stato siglato il 12 dicembre del 2015 in occasione della COP21: il cosiddetto Accordo di Parigi. Il nuovo accordo estendeva il campo di intervento, fissando obiettivi di (i) mitigazione, (ii) adattamento, (iii) assistenza sul piano finanziario, dei trasferimenti tecnologici, del capacity building e dell’educazione, (iv) perdite e danni, (v) trasparenza e verifica periodica della situazione, (vi) ruolo delle città, delle regioni e degli enti locali.
L’Accordo di Parigi ha rappresentato una svolta importante, chiamando tutti i paesi ad assumere impegni nazionali, seppure in modo differenziato. Tuttavia, al fine di evitare il prolungarsi di una fase di stallo e l’impossibilità di raggiungere un accordo allargato, si è preferito un risultato parziale, fatto di promesse di assumere impegni aggiuntivi necessari per contenere l’aumento della temperatura entro la fine del 2018. Da questo punto di vista, il 2018 si presenta come un anno cruciale per l’agenda sui cambiamenti climatici, in quanto quest’anno si dovrà concretizzare la natura degli impegni, a fronte di una situazione che registra, in termini fattuali, l’aumento delle concentrazioni medie di diossido di carbonio in atmosfera (ben oltre la soglia delle 400 parti per milione) e l’aumento delle temperature stagionali sul pianeta, cioè sulla superficie terrestre e degli oceani.
A fine 2017, la Conferenza delle Parti COP23, tenuta a Bonn sotto la presidenza di turno delle Isole Figi, ha avuto un carattere soprattutto tecnico e si è concentrata su un tema chiave dell’Accordo di Parigi, quale il finanziamento per le politiche di adattamento nei PVS da parte dei paesi industrializzati. Se la COP23 non si è distinta per la sua valenza politica o l’assunzione di decisioni chiave, rimandando alla COP24 del dicembre 2018, il contesto attuale presenta alcune ombre, a cominciare dallo scarso attivismo del paese ospitante nel 2018, la Polonia. Varsavia, infatti, è tradizionalmente legata al carbone come fonte energetica e si è posta a capo delle posizioni di “retroguardia” in seno all’Unione Europea circa maggiori impegni sul fronte della decarbonizzazione dell’economia. Inoltre, pesa come un macigno il disimpegno del Presidente degli Stati Uniti che, a giugno del 2017, ha ufficialmente comunicato la decisione di ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. A fronte di questo atteggiamento, si sono distinte la Francia, annunciando di voler rilanciare l’Accordo, organizzando l’One Planet Summit il 12 dicembre 2017, e più in generale l’Unione Europea, che mira a legittimarsi come protagonista e riferimento mondiale della transizione verso un’economia verde, al pari della Cina.
A fianco di un quadro che mira ad un maggiore coinvolgimento, in termini di finanziamenti, del settore privato, molte organizzazioni della società civile lamentano il rischio di accordi troppo blandi e poco vincolanti rispetto all’esigenza urgente di invertire la rotta sugli squilibri climatici in atto.
Per queste ragioni il 2018 è un anno cruciale. È previsto che siano fissate le regole condivise in termini di mitigazione, adattamento e supporto fornito o ottenuto (il cosiddetto “Rule Book”) e per questa ragione dall’inizio dell’anno sono in corso “dialoghi di facilitazione tra le Parti”, con una serie di appuntamenti nei prossimi mesi volti ad affrontare i temi politici irrisolti e che sfoceranno nella COP24 di dicembre.