Le grandi manovre post-elettorali diventano di giorno in giorno più avvincenti e registrano anche un cambiamento di vocabolario che vale la pena di esaminare, non tanto per i suoi contenuti politici – non ne ha – ma per i messaggi culturali che contiene e che forse esprimono l’inconscio collettivo del paese. Più precisamente, si va delineando una nuova serie di concetti, positivi e negativi, che hanno a che fare col fuoco.
Subito dopo il voto, Renzi fu il primo a scatenarsi contro i caminetti, e sulle prime tutti abbiamo pensato con tenerezza all’accogliente focolare del lungo inverno appena finito, allo scoppiettare della legna, all’odore di resina, alla gradevole sensazione di raccoglimento e calore. Cosa poteva esserci di tanto malvagio nell’innocente caminetto? Abbiamo capito poi che si trattava di caminetti intesi come riunioni di oligarchi prepotenti. Ma perché prendere proprio il caminetto come simbolo della tresca e delle segrete intese fra eletti?
Un tempo c’era la tavernetta leghista per questi incontri: quel posto kitsch, di solito nel seminterrato, con le pareti ricoperte di assi di pino da poco e la panca tutta attorno al muro ingentilita dai cuscini di lana fatti ai ferri dalla suocera utilizzando gli scampoli di maglioni smessi. Nel mezzo della stanza il tavolaccio cosparso di sottobicchieri fregati in birrerie tedesche, sul fornello il paiolo di rame per la polenta e accanto il bar, anche lui di pino, con due rubinetti da birra e le corna di cervo appese al soffitto.
Oppure c’erano i salotti del bunga-bunga, di giorno innocenti sale da pranzo con sonnolenti mobili antichi e lampadari a goccia, di notte palco di cubiste fulminato dalle luci psichedeliche. Oggi si passa invece al caminetto, segno innanzitutto che non si fa più sesso, o che lo si fa solo in due, per noia, a stomaco vuoto, senza neanche la coca. Non c’è più ammucchiata, anche il viagra scarseggia, incontri mesti, senza glamour, a ricordare il fasto che fu davanti a un bicchiere, uno solo, di vino. La fiamma viva, lì accanto a ricordare la fatuità della vita, il ciocco che si consuma e che lascia solo cenere ma anche, dietro la vampa la minaccia di un incombente inferno. Finché c’è legna c’è speranza, è vero. Ma dal caminetto alla stufa a pellet il passo è breve e colossale la caduta di stile.
Dopo i caminetti vengono oggi i forni, dove Martina ammonisce Di Maio a non bruciare il pane. Dopo il fuoco ecco un altro elemento primordiale: il pane e con lui la metafora di un governo che è cibo fondamentale ma anche unico cibo rimasto. Niente companatico. Un governo che bisogna impastare bene, che forse sta lievitando ma ancora non lo sappiamo e se lievita dunque si gonfia ma sarà un benefico gonfiore o solo un soffio, una vampata? Peggio, una crosta bruciata? La politica italiana, dopo le sofisticazioni e i godimenti estremi del berlusconismo, tutto ostriche e Champagne, dopo il bollito prodiano, dopo il ragù bersaniano, dopo la ribollita renziana ora torna all’essenziale, al pane. No, non è la pizza che il napoletano Di Maio rischia di bruciare ma il pane, la sacra pagnotta dell’eterno Renzo (non Renzi) manzoniano.
Cose buone e semplici: pane, forno e caminetto. La politica italiana è diventata rustica, frugale. Il fuoco, la prima conquista dell’umanità, e il pane, cibo sacro per eccellenza, che dure mani di contadino spezzano. La rinascita delle cose vere dopo la catastrofe delle grandi ambizioni. Ma prima o poi su ‘sto fuoco, sopra ‘sto caminetto bisognerà pure cuocerci qualcosa e in mezzo a ‘sta pagnotta infilarci una fetta di sostanza, ché tutta ‘sta dieta vegana è molto poco italiana.