Bruxelles – La Commissione europea riconosce che nell’Ue c’è “un problema per trattenere le imprese” che, raggiunta una certa dimensione, tendono ad andarsene negli Stati Uniti per trovare gli investimenti in borsa, invece di quotarsi in Europa. Come dimostra la vicenda della svedese Spotify, leader nel mercato della musica online, che si è quotata al New York Stock Exchange (Nyse), con una offerta iniziale di acquisto valutata a oltre 26 miliardi di dollari.
Nei giorni scorsi ne avevano parlato Karel Lannoo, diettore del Ceps (Centre for European Policy Studies) e general manager dello European Capital Markets Institute, e Stefano Micossi, direttore generale di Assonime, l’Associazione italiana delle società per azioni: la vicenda Spotify, avevano osservato, dimostra semplicemente che non esiste un mercato azionario unico paneuropeo dove lanciare l’offerta, e d’altra parte non sembra che il problema possa essere risolto neanche dal progetto della Commissione europea di Jean-Claude Juncker di arrivare entro la fine del suo mandato (2019) all’instaurazione di una “Unione dei mercati dei capitali” nell’Ue.
Come spiega Micossi in un commento sul sito “InPiù”, la sola possibilità per Spotify di restare in Europa “sarebbe stata di quotarsi nel suo mercato di residenza”, cioè in Svezia o in Lussemburgo dove ha sede la sua holding company, “secondo le regole di quotazione locali, e poi notificare la quotazione ad altre 27 autorità nazionali, naturalmente provvedendo a ciascuno la versione della documentazione in lingua locale e secondo le norme locali”. L’Autorità europea per i mercati finanziari (Esma), infatti, “non ha i poteri per autorizzare e sorvegliare una tale quotazione. Ci siamo riempiti la bocca con il progetto dell’Unione del Mercato dei Capitali, ma quel che abbiamo è una miriade di piccoli giardini, presidiati da piccole autorità gelose delle competenze nazionali”, concludeva Micossi.
La questione è stata posta durante il briefing quotidiano della Commissione europea a Bruxelles. “E’ vero – ha ammesso Vanessa Mock, portavoce per i Servizi finanziari – che abbiamo un problema specifico per il fatto che alcune nostre società, in particolare quelle tecnologiche, quando raggiungono una dimensione critica tendono ad andarsene negli Usa” per quotarsi in borsa.
Ed è anche per affrontare questo problema, ha spiegato, che la Commissione ha messo sul tavolo tante misure per l’Unione dei mercati dei capitali, e alcune di queste intese, appunto, “ad aiutare le società più grandi a restare”.
“Ma non c’è – ha avvertito la portavoce – un’unica soluzione miracolo (silver bullet, ndr) che si possa applicare per assicurare che i nostri campioni industriali restino in Europa, anche se questo è esattamente quello che vogliamo fare con l’Unione dei mercati dei capitali e con l’instaurazione del Mercato unico digitale”.
Sull’Unione dei mercati dei capitali, ha sottolineato Vanessa Mock, “siamo andati oltre le nostre ambizioni iniziali: abbiamo messo sul tavolo proposte per alleggerire le norme sui prospetti informativi, ovvero l’enorme quantità di documenti che una società deve preparare per quotarsi in borsa. In maggio avremo altre proposte per aiutare le Pmi a quotarsi più facilmente nelle borse europee”.
“Il dibattito – ha proseguito – è molto vasto. Vogliamo avere i pilastri dell’Unione dei mercati dei capitali in piedi entro il 2019, ma non dipende solo da noi. Non è una cosa così semplice nell’Ue, perché abbiamo una comunità di 28 diversi mercati dei capitali, alcuni dei quali hanno le loro borse. Si stanno facendo dei progressi anche sulla supervisione dei mercati dei capitali, in particolare con l’Esma, in modo da rendere il mercato unico un luogo molto più coerente in cui possano operare le società per azioni”. E comunque, ha concluso, “c’è un gran numero di società già quotate sui listini europei, piccole, medie e grandi”.
Mock non ha risposto, infine, a una domanda sul potenziale conflitto d’interessi nel meccanismo decisionale comunitario su questi temi, ravvisabile nel fatto che le decisioni a livello del Consiglio Ue sono prese in gruppi di lavoro in cui siedono come esperti, in rappresentanza degli Stati membri, proprio le autorità nazionali di sorveglianza dei mercati (la Consob per l’Italia, la BaFin tedesca, l’Amf francese, la Cnmv spagnola, l’Afm olandese, la Fca britannica etc.), che non hanno alcun interesse a perdere potere a favore di una vera e propria Autorità unica europea, come l’americana Sec, che infatti non è ancora neanche stata proposta.