Bruxelles – Niente cifre, niente nomi, niente ragionamenti sulle istituzioni del futuro. Niente decisione, e questo si sapeva già. Mancando tutto il resto, il vertice dei capi di Stato e di governo dell’Ue di venerdì prossimo rischia però di presentare la solita Europa divisa, incapace di assumersi responsabilità, e vogliosa quantomeno di provarci. Un po’ poco da offrire allo spettatore medio, schiacciato com’è da un clima di euroscettismo e un sentimento anti-europeo crescenti. Ma tant’è. I leader dei Ventisette non affronteranno le proposte di riduzione del numero dei commissari, né quella di fondere insieme le figure e le cariche dei presidenti di Commissione e Consiglio europei. Nè, ancora, si affronterà l’ipotesi di cambiare il modo di votare in Europa, abbandonando il metodo dell’unanimità per quello della maggioranza qualificata. Si parlerà allora di bilancio, per quello che si potrà. Nessuno metterà i numeretti tra parentesi. Ci si limiterà un dibattito orientativo perché, ricordano a Bruxelles, il tema del budget è sempre “divisivo”, e la riunione di venerdì non offre eccezioni in questo senso.
Si ripropone una volta di più la contrapposizione tra chi vorrebbe mettere sul piatto un po’ di più e chi invece non intende aumentare la spesa in termini di contributi. C’è il solito blocco di Paesi, quasi tutti nordici (Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Svezia, più l’Austria) che non vuole sapere di contribuire di più in termini finanziari. “Credo che la maggioranza degli Stati membri sia favorevole all’idea di aumentare le spese nazionali del budget, ma la minoranza contraria non è facile da convincere”, rivelano fonti comunitarie. La Germania ha annunciato l’intenzione di pagare di più per il funzionamento dell’Ue, e questo potrebbe aiutare il dibattito. Ma numeri e cifre “non sono sul tavolo, neppure a livello percentuale”. La Commissione europea ha proposto di portare il bilancio dell’Ue dall’1% all’1,1% del Pil complessivo degli Stati membri. Di questo non si parla. E non se ne parlerà perché troppo presto: la Commissione presenterà la proposta il 2 maggio, a Berlino non c’è ancora un nuovo governo, a Roma l’esecutivo si cambierà a breve, e non è escluso che possa cambiare con esso anche la posizione del Paese. Questo vorrebbe dire ricominciare tutto daccapo o quasi. Per questo ci si vuole concentrare sulle priorità.
I numeri, comunque, è facile immaginarli. L’attuale ciclo finanziario, quello 2014-2020, prevede risorse per 908,4 miliardi (“pagamenti”, cioè il contante disponibile), estendibile fino a 959,9 miliardi (“impegni”, vale a dire le coperture per i costi totali che potrebbero essere sostenuti durante l’esercizio di bilancio). Il commissario per il Bilancio, Gunther Oettinger, ha calcolato tra i 10 e i 12 miliardi di euro il buco di bilancio che si produrrà con l’uscita del Regno Unito dall’Ue e il conseguente venir meno del contributo britannico. I negoziati partono da queste cifre. Ma sui numeri, percentuali o assoluti che siano, non ci si soffermerà.
I leader dovrebbero giungere alla conclusione che immigrazione, difesa comune e clima sono sfide comuni che dovranno essere gestite insieme. In tal senso il primo ministro Paolo Gentiloni ricorderà l’importanza di investire nella sicurezza in Libia. Ma in chiave immigrazione il rischio è che lo schema di ricollocamenti diventi uno degli argomenti di negoziazione. I Paesi dell’est sono pronti a mettere più soldi per aiutare gli Stati di primo arrivo, Italia e Grecia, a patto che siano questi a gestirsi gli arrivi. Le divisioni già esistenti rischiano di sommarsi a quelle che arriveranno, e dunque si è scelto una riunione informale che, per natura, non produce soluzioni. Lo scontro e il fiasco decisionale dunque non saranno una notizia, semmai la notizia sarà un’eventuale convergenza su qualcosa. La composizione del Parlamento europeo nel 2019 dovrebbe rappresentare quell’oasi di condivisione in un deserto di consenso.
Tusk si aspetta che i leader diano il via libera di principio alla riduzione da 751 a 705 membri dell’Aula. Un accordo già trovato in seno al Parlamento europeo, che Tusk si limita a mettere sul tavolo dei leader. In un certo qual modo un lavoro già fatto e solo pronto per essere vidimato. Poi più nulla. Anche l’idea di nominare un candidato designato alla presidenza della Commissione Ue (spitzenkandidat) appare superata. “Non è detto che debba essere il candidato indicato a guidare l’esecutivo comunitario”: sarebbe questo, come riferiscono fonti, il principio proprio del dibattito politico. Come nominare il candidato è il vero rebus che divide governi e loro servizi giuridici. A livello giurisprudenziale c’è chi sostiene che istituzionalizzare il processo di nomina del candidato richieda modificare i Trattati dell’Ue, c’è chi invece sostiene di no. Alla battaglia politica si aggiunge dunque quella fatta di cavilli, clausole, interpretazioni.
Altro elemento controverso sul tavolo dei leader è la creazione di una lista elettorale transeuropea. Un progetto bocciato dall’attuale Parlamento europeo, che i presidenti di Commissione e Consiglio vorrebbero pur tuttavia tenere in vita. Tusk proporrà ai leader di lavorarci perché la circoscrizione Europa sia pronta per le elezioni del 2024, oltre non si spingerà. Sa che le divisioni sono tante e tali da indurre a non forzare la mano. Ci sono delegazioni che non vogliono cambiare i Trattati, e questo implica lasciare tutto così com’è. Ridurre il numero dei commissari, così come fondere insieme i presidenti di Consiglio e Commissione sono proposte che rischiano di un incontrare un “no, grazie” ampio. E allora non se ne parla, non venerdì. Tusk in queste settimane ha viaggiato per le capitali dell’Ue per sondare il terreno, con l’obiettivo di trovare una base comune su cui porre bozze di proposte tali da creare quel consenso mancante. Con qualcuno ha parlato più volte per telefono, assicurano a Bruxelles. Ma venerdì tutto questo lavorìo non si noterà.