Bruxelles – Ci voleva la giusta patata bollente, nel più caldo dei momenti, per portare la politica italiana (uscente) ad aprire gli occhi sulla deregulation dell’economia contemporanea. In piena campagna elettorale esplode il caso Embraco. L’azienda brasiliana del gruppo Whirlpool ha deciso di licenziare 500 persone nel suo stabilimento a Riva di Chieri (Torino) e trasferire la produzione di compressori per frigoriferi in Slovacchia. Il motivo è semplice: costa meno produrre lì. Così la competitività si trasforma in una spinosa questione, a poche settimane da un voto che potrebbe gravare sulla maggioranza in uscita.
Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, non ci sta. “Non molliamo”, promette. Si riferisce al caso Embraco, ovviamente. Ne ha parlato stamani con il commissario europeo per la Concorrenza, Margrethe Vestager, a cui ha chiesto due cose: di verificare se ci sono aiuti di Stato incompatibili con le regole comuni, e di valutare l’idea di un fondo italiano per la reindustralizzazione, una sorta di versione nazionale del già esistente Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (Efg), lo strumento dell’Unione europea per offrire un sostegno “ai lavoratori in esubero in conseguenza di trasformazioni rilevanti della struttura del commercio mondiale dovute alla globalizzazione, nei casi in cui tali esuberi abbiano un notevole impatto negativo sull’economia regionale o locale”.
L’Italia intende dunque creare uno strumento finanziario tutto nazionale per permettere la “reindustrializzazione” dell’area soggetta a chiusure aziendali. Si rischia la configurazione di aiuti pubblici non consentiti. Calenda ha sottoposto l’idea a Vestager per essere certo che si possa fare. Lo speciale fondo italiano allo studio dovrebbe essere usato ‘ex-post’, una volta avvenuto il trasferimento aziendale, e gestire la transizione industriale “con una maggiore intensità rispetto a quella normalmente concessa per un normale aiuto di Stato”.
Sarebbe un bel colpo ricevere da Bruxelles un ‘sì’ di questo tipo in campagna elettorale. Viene però da chiedersi come mai l’Italia, al netto delle ragioni di voto, apra solo oggi gli occhi davanti a un fenomeno finora tollerato. In questi anni, tanti gruppi hanno lasciato l’Italia per altri lidi, portando via capitali e stabilimenti. La lista sarebbe ampia: Fiat (oggi Fca, con sede fiscale a Londra, sede legale ad Amsterdam e stabilimenti aperti in Polonia), Calzedonia (stabilimenti in Bulgaria), Benetton (stabilimenti in Croazia), Telecom Italia (call center in Romania), Rossignol (stabilimenti in Romania). E la lista potrebbe continuare, aggiungendoci quanti hanno delocalizzato in Cina, in India, in Brasile. L’Italia si accorge improvvisamente della globalizzazione. “Se non mettiamo dei limiti, capitali e aziende voleranno da un Paese all’altro”.
Il risveglio della bella addormentata Italia appare tardivo, e quanto mai desolante. In questi anni non ci sei è mai chiesto, o probabilmente lo si è fatto di sfuggita, perché mai le aziende se ne vanno dal Paese. Invece di fermare l’emorragia di imprese, si preferisce ora inveire contro la concorrenza dei mercati dell’est, considerata sleale perché teoricamente di Paesi amici in quanto membri dell’Ue. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, anche lui a Bruxelles per impegni politici, sostiene che Calenda ha “legittimamente” sollevato la questione in sede europea. Ma la natura del problema è che questa mossa italiana, seppure legittima, giunge quando è ormai troppo tardi.
“Come si obbligano le multinazionali a rimanere? Con i carabinieri?”. Con politiche che attirino le imprese, magari, potremmo dire per rispondere alla domanda che Calenda pone. All’epoca, neanche troppo lontana, in cui Matteo Renzi era a capo del governo, Palazzo Chigi ragionava sull’idea di creare una ‘no-tax’ area alla luce della Brexit per attrarre le imprese in fuga. Che ne è di quel progetto?, viene da chiedersi. Sia chiaro, non è un problema di Renzi. Non solo per lui, almeno. Le imprese hanno iniziato ad andar via dall’Italia nel 2000, con impennate nel 2008, anno della crisi. E’ tutto un Paese che non sa offrire risposte al problema, da quasi vent’anni a questa parte.
La visita di Calenda offre un assist tutto elettorale al Movimento 5 Stelle, proprio ciò che i rappresentanti di questa maggioranza uscente dovrebbero evitare. “Il ministro a Bruxelles arriva tardi e solo per leccarsi le ferite”, sottolineano le europarlamentari del Movimento 5 Stelle Laura Agea e Tiziana Beghin. “In Slovacchia ci sono costi di produzione e costi del lavoro di gran lunga più bassi che in Italia. Perché in questi anni al governo Calenda e il Pd non hanno tagliato le tasse alle imprese?” Dinamiche da campagna elettorale, da una parte come dall’altra. Auspicando che dopo il 4 marzo si inverta la tendenza.
Nonostante un’interrogazione sul caso Embraco da parte del parlamentare di Sinistra Italiana Sergio Cofferati sia stata presentata tre settimane fa, la Commissione Europea “ancora tace”. L’incontro tra la Vestager a Calenda sembra non aver smosso la Commissione, sostiene l’eurodeputato. “E’ inaccettabile che la Commissione Europea non abbia ancora assunto iniziative forti per contrastare la situazione di concorrenza sleale”, afferma Cofferati riferendosi a comportamenti giudicati sleali come quelli della Embraco. “Abbiamo bisogno di un’Unione Europea profondamente diversa, finalizzata al progresso sociale”, dichiara ancora il parlamentare, ribadendo che un’Unione europea “basata su meccanismi di concorrenza al ribasso sulle spalle di lavoratori e cittadini non può e non deve funzionare”.