Bruxelles – L’aria che si respira nelle cabine degli aerei è tossica? L’industria aeronautica e le autorità di regolamentazione hanno costantemente negato l’esistenza di aerotossicità, ma nel 2014 l’autopsia fatta su Matt Bass, un membro dell’equipaggio della British Airways morto improvvisamente dopo un volo di sei ore da Accra (Ghana) a Londra, ha riscontrato alti livelli di avvelenamento da organofosfati, uno degli effetti della sindrome aerotossica. La morte di Bass è tuttavia solo uno dei tantissimi casi di persone contaminate da aerofosfati nel corso dei decenni.
Cosa sono gli aerofosfati e cos’è la sindrome aerotossica. L’aria che si respira in una cabina dell’aeromobile è nota come aria di scarico, prelevata dal compressore dei motori a reazione. Il sistema fornisce aria pulita e pura per la cabina, tuttavia può succedere che guarnizioni danneggiate consentano la fuoriuscita di olio lubrificante nel compressore e, di conseguenza nell’aria immessa in seguito in cabina. L’olio lubrificante contiene composti organofosfati, sostanze tossiche che possono causare visione offuscata, nausea, difficoltà respiratorie, mal di testa, stanchezza, convulsioni e persino la morte. L’esposizione a questo contaminante nell’ambiente aeronautico è stata etichettata come sindrome aerotossica e gli effetti possono essere a lungo termine e potenzialmente letali.
Pur non essendo riconosciuta ufficialmente come malattia, la sindrome sembra aver colpito per diversi decenni un numero molto alto di membri dell’equipaggio di cabina, piloti e frequent flyer che hanno riportato sintomi identici tra loro e hanno identificato gli aerofosfati come “l’amianto dei cieli”. Nel 2015 il regista Tim van Beveren ha firmato il documentario inchiesta “Unfiltered Breathed in: The Truth About Aerotoxic Syndrome”, in cui ricostruisce la storia della sindrome e il suo impatto sulla vita di lavoratori e viaggiatori. Qui il trailer del documentario.
Uno studio pubblicato nel 2017 e condotto da tre scienziati, Susan Michaelis dell’Università di Stirling (UK), Jonathan Burdon dell’Università di Melbourne (Australia) e C. Vyvyan Howarddelle dell’Università dell’Ulster (UK) afferma che la sindrome dovrebbe essere classificata come malattia professionale, anche in forza dell’alto tasso di decessi e infermità più o meno permanenti tra i piloti e i membri degli equipaggi. Secondo una ricerca telefonica e scritta condotta tra il 2005 e il 2009 sui piloti di uno specifico apparecchio, il BAe 146 Avro, e citata nello studio di Michaelis, Burdon e Howarddelle, dei 274 intervistati 142 hanno riportato di sintomi precisi e diagnosi riferibili alla sindrome aerotossica. Complessivamente l’88 per cento dei piloti si è detto consapevole di essere esposto ad aria contaminata e il 34 per cento ha detto di esservi esposto di frequente. Il 13 per cento di questi piloti (36) è deceduto o ha contratto malattie croniche o invalidanti per il volo. Anche sulla base di queste evidenze, le conclusioni dello studio suggeriscono il “bisogno di definire un chiaro protocollo medico riconosciuto a livello internazionale, di riconoscere la sindrome come malattia professionale e di raccogliere dati sulla salute e sull’ambiente”.
Che il problema sia grave e in crescita lo ha scoperto il quotidiano The Australian l’anno scorso quando ha rivelato che tra giugno 2014 e maggio 215 solo sugli aerei del Regno Unito si sono verificati 292 incidenti con dispersione in cabina di esalazioni e fumi e in 92 di questi sono stati segnalati malori tra il personale di bordo o i passeggeri. Eppure le compagnie aeree e l’intera industria aeronautica hanno finora mantenuto un atteggiamento negazionista o estremamente difensivo, limitandosi a citare studi interni secondo cui l’aria immessa nelle cabine pressurizzate degli aerei è e rimane pulita.
Nel 2014, un collega di Bass, Dee Passon, ha costruito Angelfleet.net, sito dedicato alla memoria dei membri degli equipaggi di British Airways scomparsi. Sorprende come l’età media sia così bassa, appena sopra i 40 anni. Il sito, che oggi conta oltre diecimila membri in tutto il mondo, promuove una maggiore sicurezza del trasporto aereo, in particolare per gli ambienti di cabina cercando di sensibilizzare gli utenti sul problema dell’aria contaminata.
Qualcosa tuttavia sta cambiando in un settore che è rapidissimo ad abbracciare e investire milioni di dollari in qualsiasi risorsa tecnologica in grado di far risparmiare qualche minuto, qualche libbra di carburante o far spendere qualche centesimo in più ai propri clienti, ma altrettanto restio ad ammettere l’esistenza di possibili problematiche per la salute di equipaggi e passeggeri. A settembre 2017 easyJet ha cominciato a sperimentare un nuovo sistema per filtrare l’aria e impedire in qualsiasi caso che gli olii lubrificanti vengano a contatto con l’aria successivamente immessa in cabina. Una mossa considerata da molti come un riconoscimento della sindrome aerotossica. Difficilmente si arriverà a un’ammissione chiara e netta del problema, nemmeno easyJet la fa. La responsabilità civile delle compagnie e le cause di risarcimento potrebbero coinvolgere potenzialmente tutti i circa 3,5 miliardi di viaggiatori (in costante aumento) che ogni anno nel mondo prendono un aereo. Il che, come è facile immaginare, significherebbe semplicemente la fine del trasporto aereo. Tuttavia, se i test di easyJet daranno esiti soddisfacenti, è ipotizzabile che nel giro di qualche anno almeno i principali vettori dotino i propri apparecchi di filtri e sistemi di controllo della qualità dell’aria tali da impedire o per lo meno ridurre drasticamente il numero di incidenti e di malesseri legati alla sindrome aerotossica. E, c’è da scommetterci, ne faranno una leva di marketing.
Leggi l’articolo sul Blog di Stefano Campolo ‘Parto domani’.